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Autore: Alessandro Sgrò

Comunicazione di irregolarità: atto impugnabile

La comunicazione di irregolarità ex art. 36 ter del D.P.R. 600/1973.

Riferimenti:

– art. 36 ter del D.P.R. n°600/1973;

– Corte di Cassazione, sentenza n°1505/2017.

E’ un atto impugnabile innanzi alle Commissioni Tributarie la comunicazione d’irregolarità di cui all’art. 36 ter del D.P.R. n°600/1973 ?

La risposta è senza dubbio affermativa.

Difatti la Corte di Cassazione con la sentenza n°1505/2017 ha stabilito che in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A., ogni atto adottato dall’ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, sicché è immediatamente impugnabile anche l’avviso emesso a norma dell’art. 36 ter, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973. (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 15957 del 28/07/2015).

Solo un ufficio di equitalia territorialmente competente può disporre il fermo del veicolo


Riferimenti:

– Corte di Cassazione, sentenza n°8049/2017;

– D.P.R. n. 602 del 1973 art. 12.

– D.P.R. n. 602 del 1973 art. 24.

Tra le diverse ipotesi d’illegittimità del preavviso di fermo amministrativo che ho trattato in alcuni articoli pubblicati sul mio sito nella categoria “Equitalia”, occorre annoverare anche quella concernente l’incompetenza dell’Ufficio territoriale di Equitalia ad emettere il provvedimento cautelare.

In sostanza, secondo la recentissima sentenza n°8049/2017 della Corte di Cassazione, l’Ufficio territoriale di Equitalia competente ad emettere un provvedimento di fermo amministrativo è solo ed esclusivamente quello in cui ha la residenza o il domicilio fiscale il contribuente (nel caso trattato dal giudice di legittimità il provvedimento di fermo del veicolo era stato emesso illegittimamente dal Concessionario di Avellino, anziché da quello di Caserta ove la contribuente aveva il proprio domicilio fiscale).

Il sotteso principio di diritto è chiaro e condivisibile: ogni atto impositivo deve essere emesso dall’organo territorialmente competente.

Ciò deve avvenire anche in forza del combinato disposto degli artt. 12 e 24 del D.P.R. n. 602 del 1973, poiché l’Ufficio accertatore “forma ruoli distinti per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari operano”, consegnandoli al “concessionario dell’ambito territoriale cui esso si riferisce”.

Del resto il predetto principio vige anche per quanto concerne gli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate. Difatti, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito, solo l’Ufficio territoriale ove il contribuente ha la propria residenza o domicilio fiscale può procedere alla notifica di un avviso di accertamento esecutivo.

Difatti quest’ultimo è l’unico Ufficio a conoscenza della reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale del contribuente ed è, quindi, nelle migliori condizioni per svolgere la raccolta d’informazioni in modo da giungere a un’imposizione maggiormente aderente all’effettiva capacità contributiva del soggetto (Cass. sent. n°2998/1987; Comm. Trib. Prov. di Milano, sentenza n°149/46/2009).

 

Rettifica della rendita catastale proposta tramite procedura docfa

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Accade spesso che a seguito di una variazione dello stato dell’immobile, il proprietario, tramite un proprio tecnico di fiducia, proponga all’Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio, con la c.d. procedura DOCFA, categoria, classe e rendita da attribuire al bene.

In caso di mancata rettifica della rendita catastale da parte dell’Agenzia delle Entrate, entro 12 mesi dall’invio della DOCFA, la rendita iscritta in atti come proposta diviene definitiva (ciò però non esclude che nel corso degli anni l’Agenzia proceda a una rettifica). Se, viceversa, entro i 12 mesi l’Agenzia ritiene di non dover accogliere la classe, la categoria e la rendita proposta, notificherà al proprietario un provvedimento di rigetto/rettifica che corregge retroattivamente quanto oggetto di proposta.

Il provvedimento di rettifica/rigetto dev’essere adeguatamente motivato. A queste conclusioni è giunta, finalmente, la Corte di Cassazione con la sentenza n°3394/2014 che, dopo aver giustamente criticato alcuni aspetti del sistema catastale italiano, ha censurato la condotta dell’Ufficio sull’assunto che “non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal contribuente con la Dofca viene disattesa”.

In verità, per chi ancora non avesse avuto modo di trattare con attenzione le problematiche sottese alla c.d. procedura DOCFA, occorre precisare che la suindicata pronuncia, sebbene pienamente conforme ai principi di cui all’art. 3 della L. n°241/1990 e art. 7 dello Statuto del Contribuente in materia di motivazione degli atti della P.A., si pone in netto contrasto con il suo precedente orientamento.

Difatti, con ordinanza n°15495/2013, i giudici di legittimità ritenevano che “La questione della adeguata motivazione del provvedimento di classamento ed attribuzione della rendita è stata molteplici volte risolta da questa Corte nel senso che essa può ritenersi correttamente esplicitata anche mediante la mera indicazione dei dati oggettivi acclarati dall’ufficio tecnico erariale e della classe conseguentemente attribuita all’immobile, trattandosi di dati idonei (specie allorquando il provvedimento costituisca l’atto terminale di una procedura di tipo fortemente partecipativo quale è la c.d. DOCFA, che implica l’indicazione degli elementi fattuali rilevanti da parte dello stesso contribuente, dati che nella specie di causa costituiscono la base oggettiva dello stesso provvedimento di classamento, che si è limitato a farne difforme valutazione rispetto alla proposta) a consentire al contribuente, mediante il raffronto con quelli indicati nella propria dichiarazione, di intendere il “petitum provvedimentale”, sì da essere in condizione di tutelarsi mediante ricorso alle commissioni tributarie”.

Orbene, a parere dello scrivente, la Cassazione con la sentenza n° 3394/2014, pronunciandosi sulla necessità di un’adeguata motivazione anche del provvedimento di rigetto/rettifica, ha senza dubbio ripristinato una situazione di legalità, posto che, com’è noto, la motivazione dell’avviso di accertamento ha una duplice finalità: rendere esplicito e manifesto l’iter logico giuridico seguito nella formulazione dell’atto e, al contempo, consentire al destinatario la cognizione e la contestazione degli eventuali errori di fatto e di diritto che lo inficiano.

Tuttavia, ci si chiede se non sia il caso di intervenire con altrettanta forza nel far rispettare in materia catastale anche il principio di collaborazione tra Fisco e contribuente, sancito all’art. 12 della L. n°212/2000.

Principio, quest’ultimo, che verrebbe completamente vanificato se l’attività dell’Ufficio non consentisse al soggetto sottoposto ad accertamento di instaurare alcun contraddittorio, precedente alla fase di notifica dell’atto impositivo. Le attività di produzione documentale e di formulazione di osservazioni esperibili dal contribuente sono, infatti, in grado di incidere nel merito sul contenuto dell’eventuale provvedimento con importanti e non trascurabili effetti di deflazione del contenzioso.

Sul punto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in numerose occasioni, affermando il diritto del contribuente a contraddire in via preventiva rispetto all’emissione dell’atto impositivo. In sostanza i Giudici europei affermano il fondamentale principio secondo cui il diritto di difesa, in quanto principio generale del diritto comunitario, deve trovare applicazione ogni volta che l’Amministrazione si proponga di adottare un atto capace di produrre effetti rilevanti nella sfera giuridica del destinatario.

In forza di tale principio “i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal fine essi devono beneficiare di un termine sufficiente” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Causa C- n°349/2007).

Si ricorda che il nuovo classamento e rendita, se non opposti entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento, rilevano:
– ai fini dell’imposta delle SUCCESSIONI e DONAZIONI;
– ai fini IRPEF;
– ai fini IMU;
– ai fini TARES.

Notifica della cartella esattoriale al portiere

Riferimenti:

art. 139 c.p.c.;

art. 26 del D.P.R. n. 602 del 1973;

Corte di Cassazione, sentenza n°17915/2008;

Corte di Cassazione, ordinanza n°16949/2014.

L’art. 139 c.p.c. disciplina l’ipotesi in cui il destinatario di un atto non viene trovato nel luogo ove deve eseguirsi la notifica. Precisamente detta norma prescrive che “Se il destinatario non viene trovato in uno di tali luoghi, l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace.

In mancanza delle persone indicate nel comma precedente, la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”

Ci si chiede, a questo punto, se in virtù della normativa in esame, possa considerarsi valida la consegna di un atto tributario al portiere senza l’invio della lettera raccomandata che informa il destinatario dell’avvenuta consegna dell’atto a mani del portiere.

Secondo un primo orientamento, del tutto condivisibile, la Corte di Cassazione con sentenza n° 17915/2008 ha affermato cheLa notificazione avvenuta a mani del portiere dello stabile ai sensi dell’art. 139 cod. proc. civ., comma 3 è altresì nulla quando sia mancato l’avviso al destinatario dell’avvenuta notificazione a mezzo di lettera raccomandata (Cass. 24.7.92 n. 8920; Cass. 7.6.78 n. 2847)”.

Precisando ulteriormente che “nella notificazione effettuata non a mani proprie del destinatario ex art. 139 cod. proc. civ. si deve distinguere, al fine di stabilire l’essenzialità dell’avviso d’avvenuta notifica al destinatario a mezzo di lettera raccomandata, l’ipotesi di cui al comma 2, per la quale tale formalità non è necessaria, da quella di cui al comma 3, per la quale è, invece, necessaria in quanto espressamente prescritta dal successivo quarto comma, in ragione del minore affidamento prestato dal legislatore alla consegna dell’atto notificando a mani del portiere o del vicino di casa in luoghi diversi dall’ambiente proprio della sfera di stretto dominio del destinatario, tanto da indurlo a disporre, oltre alla sottoscrizione dell’originale da parte dei consegnatari, anche la spedizione, appunto, della raccomandata al destinatario”.

Di diverso avviso però sembra essere il più recente orientamento della Corte di Cassazione che con l’ordinanza n°16949/2014, ha ritenuto che “in tema di notifica a mezzo posta della cartella esattoriale emessa per la riscossione di imposte o sanzioni amministrative, trova applicazione il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 per il quale la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, come risulta confermato per implicito dal citato art. 26, penultimo comma secondo il quale l’esattore è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 14327 del 19/06/2009, n. 14105 del 2000).

Del resto poi con riferimento alla notificazione della cartella mediante consegna al portiere, l’invio della lettera raccomandata di cui al comma quarto dell’art. 139 c.p.c., non attiene alla perfezione dell’operazione di notificazione, sicché la sua omissione si risolve in una mera irregolarità di carattere estrinseco non integrante alcuna delle ipotesi di nullità previste dall’articolo 160 cod. proc. civ. (V. pure Cass. Sentenze n. 15315 del 05/07/2006, n. 16164 del 2003)”

Ebbene, inutile dire, che a mio sommesso avviso, l’omessa spedizione della raccomandata di cui al quarto comma dell’art. 139 c.p.c. non costituisce una mera irregolarità, come invece ritengono i giudici di legittimità, ma un vero e proprio vizio procedurale che sarebbe più corretto sanzionare con la nullità della notificazione dell’atto.

Accertamenti bancari

Accertamenti bancari:  illegittimi in mancanza di un P.V.C.?

Riferimenti:

art.12, comma 7, della l. n°212/2000

Corte di Cassazione, sentenza n°2594/2014;

Corte di Cassazione, sentenza n° 406/2015,

Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria n°527/2015

E’ innegabile che i controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate sui conti bancari dei contribuenti nonché sui conti intestati a soggetti terzi che hanno significativi rapporti con gli stessi contribuenti, stanno assumendo sempre maggiore rilevanza, tanto da meritare una breve disamina delle possibili cause di illegittimità di eventuali avvisi di accertamento basati sulle movimentazioni bancarie.

Ovviamente, poiché la materia è molto vasta e non basterebbe un volume intero per racchiudere le molteplici problematiche sottese a tale tipo di accertamento, soffermeremo la nostra attenzione sulla più recente giurisprudenza formatasi sull’avviso di accertamento notificato al contribuente ma non preceduto dal c.d. PVC (Processo Verbale di Accertamento).

Sul punto l’art.12, comma 7, della l. n°212/2000 stabilisce che “Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.

La norma sul punto è chiara: terminate le operazioni istruttorie, l’Ufficio deve redigere un apposito verbale e consegnarlo in copia al contribuente. L’Ufficio, inoltre deve attendere  60 giorni prima di poter emettere un avviso di accertamento, poiché entro detto termine il contribuente ha diritto di formulare e presentare all’Amministrazione Finanziaria le proprie difese e/o osservazioni.

Ora, la questione fondamentale è se detta norma si applichi solo agli accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si eserciti attività aziendale o professionale del contribuente, oppure vale in via generale e, dunque, anche per gli accertamenti c.d. “a tavolino”, ovvero quelli effettuati dall’Agenzia fiscale sui conti bancari del contribuente.

Sul punto la sentenza n°2594/2014 della Corte di Cassazione, seppur laconicamente, ha censurato la sentenza di merito per non aver ritenuto che il termine dilatorio di 60 giorni di cui al settimo comma dell’art. 12 della l. n°212/2000 dovesse essere rispettato dall’Ufficio anche in esito a una verifica fondata su indagini bancarie.

Ebbene, ne consegue che se gli Ermellini riconoscono fondamentale il termine dilatorio di 60 giorni  recta via riconoscono, a pena di illegittimità del successivo avviso di accertamento, anche un obbligo per l’Agenzia delle Entrate di emettere a conclusione della fase puramente istruttoria un Processo Verbale di Accertamento.

Interessante per i principi espressi è  la recentissima sentenza n° 406/2015 ove la Corte di Cassazione afferma che “avuto riguardo alla operata riconduzione ad unità sistematica, in materia tributaria, del principio del contraddittorio anticipato e delle conseguenze giuridiche invalidanti l’atto per la inosservanza del modello legale, risulta che tanto la disciplina procedimentale delle fattispecie abusive, in materia di imposte dirette, dettata dall’art. 37 bis, comma 4, quanto quella prevista dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, debbono essere unitariamente interpretate alla stregua degli specifici riferimenti tratti dalla giurisprudenza comunitaria secondo cui “il rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo” (cfr. Corte giustizia 18.12.2008, causa C-349/07, Sopropè; id. 22.10.2013, causa C-276/12, Sabou), con la conseguenza che “i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione” (cfr. Corte di giustizia 24.10.1996, causa C-32/95 P, Lisrestal; id. 21.9.2000, causa C-462/98 P, Mediocurso; id. 12.12.2002, causa C-395/00, Cipriani; id. Sopropè, dt.; id. Sabou, dt.)” .

Pertanto i giudici di legittimità giungono ad affermare che “anche nel caso in cui l’Ufficio finanziario intenda contestare fattispecie elusive, indipendentemente dalla riconducibilità o meno delle stesse alle ipotesi contemplate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 3, è tenuto a richiedere preventivamente chiarimenti al contribuente e ad osservare il termine dilatorio di gg. 60, prima di emettere l’atto accertativo che dovrà essere specificamente motivato anche in ordine alle osservazioni, chiarimenti, giustificazioni, eventualmente fornite dal contribuente: risultando inficiato dal vizio di nullità l’atto impositivo emesso in difformità da detto modello procedimentale.”

Orbene, la questione sul punto è tutt’altro che pacifica, ricordiamo, infatti, che in altre occasioni la Corte di Cassazione si è espressa affermando che l’applicazione dell’art.12, comma 7, riguarda solo ed esclusivamente agli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali del contribuente (sentenze nn°15583/2014, 7598/2014, 13588/14). Proprio al fine di dirimere definitivamente detto contrasto la Corte di Cassazione con ordinanza interlocutoria n°527/2015 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite precisando quanto segue: “ritiene il Collegio che l’opzione ermeneutica più lineare per garantire il contraddittorio processuale, nei termini delineati dalla sentenza n 1968/14, nei procedimenti di verifica c.d.” a tavolino” sia quella di applicare anche a tali verifiche il disposto dell’art.12, comma 7, l.212/00”.

Pertanto, in attesa che le Sezioni Unite si pronuncino definitivamente sul tema, ritengo che solo un processo verbale di constatazione comunicato al contribuente, anche in sede di verifica effettuata presso l’Ufficio finanziario, offre la possibilità al contribuente di comprendere le violazioni che gli saranno contestate e, conseguentemente, egli potrà formulare entro 60 giorni tutte le proprie osservazioni che dovranno essere valutate dall’Ufficio fiscale e oggetto di particolare e adeguata motivazione qualora quest’ultimo ritenesse comunque di procedere con la notifica di un avviso di accertamento.

Rottamazione delle cartelle equitalia

equitalia

ROTTAMAZIONE CARTELLE DI PAGAMENTO

QUESITI E RISPOSTE

Ritengo sia molto interessante e altrettanto utile per chi debba procedere alla rottamazione delle proprie cartelle di pagamento ovvero sia ancora indeciso sul da farsi, proporre alcune risposte fornite da Equitalia ai quesiti posti dall’Ordine dei Dottori Commercialisti di Roma in merito alle modalità applicative della rottamazione delle cartelle di pagamento.

Quesito n. 1 (Decadenza da rateizzazione in essere)

In merito all’oggetto si chiede se il contribuente decaduto da precedente rateizzazione per un numero di rate rimaste non pagate superiore a quelle ammesse per la procedura di riabilitazione, possa accedere alla futura rottamazione.

Risposta: Rientrano nell’ambito applicativo della definizione agevolata i carichi già interessati da provvedimenti di rateizzazione in essere alla data di entrata in vigore del D.L. 193/2016 a condizione che, entro il 31 marzo 2017, risulti saldato l’importo delle rate scadenti a tutto il 31 dicembre 2016. Pertanto, il contribuente decaduto prima di tale data (24/10/16) può aderire senza vincoli alla definizione agevolata.

Quesito n. 2 (Aspetto vincolante dell’istanza)

Dal testo normativo non appare chiaro se la presentazione dell’istanza – ancor prima del pagamento della prima rata – costituisce una manifestazione di volontà irritrattabile di aderire alla rottamazione. In pratica, ad esempio, se il contribuente presenta l’istanza e in un momento successivo decide di non aderire al pagamento proposto dall’esattore nelle 5 rate tra 2017 e 2018, ma di proseguire nel pagamento degli importi originari nei tempi più lunghi secondo il rateizzo a suo tempo concordato, può ancora farlo, oppure il solo fatto di aver presentato l’ istanza gli preclude di tornare indietro?

Risposta: Dopo la presentazione della dichiarazione di adesione, è possibile rinunciare alla definizione agevolata, producendo, inderogabilmente, entro il 31 marzo 2017, un’apposita dichiarazione; decorso tale termine il contribuente non può più rinunciare alla dichiarazione di adesione precedentemente presentata. A seguito del mancato pagamento della prima o dell’ unica rata della definizione sarà revocata la sospensione ed il contribuente potrà riprendere il pagamento delle rate della dilazione precedentemente concessa.

Quesito n. 3 (Rottamazione avvisi di accertamento)

In caso di accertamento con adesione: la prima rata dell’adesione scade il 14 dicembre , non viene pagata e l’ufficio emette avviso di accertamento entro il 31/12/2016. Tale avviso di accertamento è rottamabile se non viene “affidato ” a Equitalia entro il 31/12?

Risposta: Rientrano nell’ambito applicativo della definizione agevolata i carichi (ruoli, Avvisi di accertamento esecutivi emessi dall’Agenzia delle entrate/Dogane e Monopoli, Avvisi di addebito emessi dall’INPS) affidati nel periodo ricompreso tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2016. Per carichi iscritti a ruolo la data di consegna è determinata ai sensi dell’art. 4 del D.M. n. 321 del 1999 (Data di consegna dei ruoli – Per i ruoli trasmessi ad Equitalia fra il giorno 1 ed il giorno 15 del mese, la consegna al concessionario si intende effettuata il giorno 25 dello stesso mese; per i ruoli trasmessi ad Equitalia fra il giorno 16 e l’ultimo giorno del mese, la consegna al concessionario si intende effettuata il giorno 10 del mese successivo).

Quesito n. 4 (Rottamazione delle cartelle)

Gentilissimi Sig.ri, è previsto, per la presentazione del modello DA1, che il contribuente possa inviare tramite PEC, la richiesta di adesione agli uffici competenti di Equitalia. Nel modello DA1 è previsto che il contribuente possa essere domiciliato presso un indirizzo PEC, e gli sportelli di Equitalia di Via Petrella mi hanno consentito di indicare come indirizzo PEC il mio, nella qualità di professionista delegato. Non è ben chiaro, se una volta eletto domicilio PEC all’interno del modello DA1, che sia stata sottoscritta la delega al professionista nello stesso modello, se quest’ultimo possa essere presentato a mezzo PEC del professionista delegato, corredato da documento di riconoscimento del contribuente e del professionista stesso.

Risposta: Il modello prevede una sezione da compilare nell’ipotesi di presentazione della dichiarazione da parte di un soggetto diverso dal richiedente. La delega avrà ad oggetto anche la modifica della dichiarazione o il ritiro di eventuali comunicazioni al riguardo. Utilizzando lo strumento della delega è obbligatorio allegare alla dichiarazione copia del documento di identità del soggetto delegante e del soggetto delegato. La delega deve essere altresì compilata nel caso in cui la dichiarazione sia inviata a mezzo e-mail o PEC da soggetto diverso da quello del richiedente.

Quesito n. 5 (Procedure esecutive)

Equitalia, pur ricevendo richiesta di rottamazione, in caso di richieste da parti di enti pubblici prima del pagamento delle fatture procede con pignoramento immediato delle somme. Questa procedura rende impossibile al contribuente di aderire alla rottamazione. Questa procedure durante i termini previsti per la rottamazione crea confusione ed iniquità.

Risposta: Solo in seguito alla presentazione della dichiarazione di adesione, l’Agente della riscossione, per i carichi rientranti nell’ambito applicativo della definizione agevolata e compresi nella dichiarazione, non può avviare nuove azioni cautelari e/o esecutive e non può proseguire quelle già avviate a condizione che le medesime non siano già in una fase avanzata dell’iter procedurale. Pertanto, nel caso di specie, se siamo in presenza di verifica di inadempienza ai sensi dell’art. 48 bis del DPR 602/73 e conseguente pignoramento terzi delle somme di cui alla verifica, non si procede allo svincolo della fattura in quanto trattasi di fase avanzata del procedimento.

Quesito n. 6 (Rottamazione successiva alla rateazione)

Percepisco un ingiustificato trattamento tra contribuenti che hanno in corso una rateazione delle cartelle esattoriali e che quindi stanno facendo sforzi immani per saldare i propri debiti iscritti a ruolo e contribuenti che ad oggi non hanno fatto nulla e hanno l’opportunità di sanare la propria situazione debitoria con tutte le riduzioni previste. Al contribuente che ha in corso una o più rateazioni si chiede di essere in regola (e continuare a pagare le rate) fino al 31/12/2016 nonostante possa già da ora formulare la richiesta di “rottamazione” e senza la possibilità di sospendere le rate. Dal momento in cui formulerà la richiesta di “rottamazione” ciò che ha pagato anche a titolo di sanzioni, interessi, aggio non gli viene riconosciuto, non beneficiando così, allo stesso modo del contribuente che non ha posto in essere alcuna regolarizzazione, dell’abbattimento al 100% delle sanzioni, interessi aggi iscritti a ruolo.

Risposta: Come già rappresentato nella risposta del quesito 33976, rientrano nell’ambito applicativo della definizione agevolata i carichi già interessati da provvedimenti di rateizzazione in essere alla data di entrata in vigore del D.L. 193/2016 a condizione che, entro il 31 marzo 2017, risulti saldato l’importo delle rate scadenti a tutto il 31 dicembre 2016. Pertanto, il contribuente che è decaduto prima di tale data (24/10/16), può aderire senza vincoli alla definizione agevolata. Invece, in presenza di provvedimenti di rateizzazione concessi successivamente alla predetta data del 24/10/2016, non ricorre la condizione dell’obbligo di pagamento delle rate in scadenza nel trimestre ottobre-dicembre 2016 prevista dal citato comma 8.

Quesito n. 7 (Tributi Ama)

Buonasera, mi sono relazionato una volta con l’Agente della Riscossione (da qui in poi l’agente) in merito a dei contribuenti che avevano carichi erariali iscritti a ruolo ove l’ente creditizio risultava essere l’Ama di Roma. L’agente – stranamente -, non poteva riscuotere per tale società le pretese economiche avanzate, quindi le dilazione per determinati tributi dovevano passare per forza presso i loro sportelli di Aequaroma. Premesso ciò, il quesito è: se un contribuente ha debiti iscritti a ruolo presso l’ente poc’anzi citato e presenta domanda di rottamazione dei ruoli, gli verranno stralciati definitivamente sanzioni e interessi di mora? Se si, L’agente gli potrà effettuare il piano di dilazione se non è autorizzato a riscuotere? Aequaroma mi ha comunicato che la dilazione deve essere fatta presso i loro sportelli; Equitalia che fanno loro la rateazione a seguito della richiesta di rottamazione.

Risposta: Ai sensi del comma 1 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 46/99, l’Ama non ci ha mai autorizzato alla rateazione dei carichi iscritti a ruolo. Per effetto di ciò, la società emette dei piani in proprio che prevedono la dilazione della sola imposta con conseguente sospensione del carico fino al pagamento integrale delle somme ed il pagamento in unica soluzione delle sanzioni ed interessi che non sospende. Il contribuente – in questi casi – può aderire alla rottamazione, nei limiti di legge, per il carico residuo in riscossione.

Quesito n. 8 (Modello DA1)

Salve in merito alla presentazione del modello DA1 per la rottamazione delle cartelle di un cliente, lo stesso mi chiede di provvedere alla definizione di una cartella, mentre per un’altra sta ancora valutando e mi chiede nel caso di definirla successivamente con la presentazione di un nuovo modello. Inoltre voleva provvedere alla definizione di un avviso dei Monopoli per mancato pagamento dell’imposta unica sulle scommesse e vuole sapere se è definibile con il modello DA1.

Risposta: Il contribuente può presentare entro il 31 marzo 2017 più dichiarazioni di adesione anche per singole cartelle e nell’ambito delle stesse per singoli ruoli. Essendo esclusi dall’ambito applicativo i soli carichi relativi a

  • risorse proprie tradizionali della Comunità europea,
  • somme dovute a titolo di recupero aiuti di Stato,
  • crediti derivanti da pronunce di condanna della Corte dei conti,
  • multe, ammende e sanzioni pecuniarie dovute a seguito di provvedimenti e sentenze penali di condanna, non si ravvisano elementi ostativi alla presentazione della dichiarazione di adesione per le sanzioni collegate all’avviso dei Monopoli.

Quesito n. 9 (Cartelle erede)

Un erede ha ottenuto lo storno delle sanzioni dalle cartelle esattoriali ereditate. Aderendo alla rottamazione delle cartelle potrebbe ottenere lo storno anche degli interessi di mora.

Risposta: Sì, è possibile aderire

Quesito n. 10 (Definizione agevolata presentata da parte del curatore fallimentare)

E’ possibile la presentazione dell’istanza da parte di un curatore fallimentare?

Risposta: Sì. Nell’ambito della procedura fallimentare legittimato a presentare la dichiarazione di adesione è il Curatore, preventivamente autorizzato dal GD e con il parere favorevole del Comitato dei creditori.

Quesito n. 11 (Rinuncia al contenzioso giudicato interno)

I ricorsi avverso un avviso di accertamento hanno, in tre gradi di giudizio (provinciale, regionale, ottemperanza), prodotto altrettante sentenze favorevoli al contribuente (oltre l’80% dei maggiori imponibili sono stati annullati dai giudici). L’agenzia ha sempre esplicitamente prestato acquiescenza alle sentenze. Ora la controversia è in Cassazione su ricorso del contribuente. Nel frattempo Equitalia ha notificato cartelle di pagamento prima per la riscossione del terzo a titolo provvisorio. In seguito tali cartelle sono state parzialmente sgravate dall’ AdE in ottemperanza alle sentenze. Visto che le sanzioni sulle somme ammontano a circa il 60% delle somme residue. L’eventuale adesione alla rottamazione che effetto produce?

Risposta: Il pagamento della imposta principale, degli interessi iscritti a ruolo, del diritto di notifica, delle spese di procedura, degli aggi riferiti ai tributi da pagare. Il contribuente dovrà rinunciare al Contenzioso in essere.

Quesito n. 12 (Rottamazione rateazioni in corso)

Per un contribuente con una rateazione in corso, tuttavia non completamente in regola con i pagamenti, ci si chiede se è sufficiente, per accedere alla rottamazione, pagare le sole tre rate di ottobre, novembre e dicembre 2016, oppure l’intero debito scaduto. Lo sportello Equitalia di Ostia Lido, afferma che è necessario pagare tutte le rate scadute oltre quelle di ottobre, novembre, dicembre 2016.

Risposta: No, devono essere pagate tutte le rate al 31 dicembre 2016.

IL PROSSIMO TAVOLO TECNICO È FISSATO AL 17 FEBBRAIO 2017

Accertamento catastale

È nullo l’avviso di accertamento catastale per la revisione parziale del classamento di cui all’art.1, comma 335, della Legge n°311/2004, per difetto di motivazione qualora l’Agenzia delle Entrate, Ufficio Provinciale del Territorio,  non ha reso possibile al contribuente conoscere i presupposti del nuovo classamento e della nuova rendita.

In altri termini l’Ufficio ha l’obbligo di esporre i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato il riclassamento e tale obbligo non può risolversi nella mera elencazione di norme che si ritengono astrattamente applicabili, ma deve far conoscere al contribuente le modalità di rilevazione dei valori medi, la metodologia utilizzata e la bontà dei sistemi di rilevazione.

Quando il contribuente si trova nell’impossibilità di verificare realmente le anomalie poste alla base della revisione del classamento e in quale misura dette anomalie incidono sulla classe del proprio immobile, l’atto di accertamento deve essere dichiarato nullo per difetto assoluto di motivazione.

SUL PUNTO SI SEGNALANO:

Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, sentenza n°459/4/2013;

Corte di Cassazione sentenza n° 9629/2012.

Lo studio legale e tributario Sgrò, in collaborazione con alcuni studi tecnici, stante i numerosi avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate ai proprietari di immobili di Roma, ha già proposto alcuni ricorsi in Commissione Tributaria Provinciale, ritenendo l’illegittimità di detti avvisi per molteplici motivi, ulteriori rispetto alle suindicate pronunce dei giudici di legittimità e di merito, tenuto anche conto della specificità di ogni singola situazione e unità immobiliare. 

Agevolazioni fiscali della prima casa

 

Nel caso di acquisto di un appartamento a uso abitativo da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, l’altro coniuge anche se non ha partecipato al rogito o anche se sia sprovvisto dei requisiti di legge per beneficiare delle agevolazioni fiscali per la prima casa già in capo al coniuge contraente ha comunque diritto alle dette agevolazioni poiché diviene comproprietario automaticamente ex lege e non ex contracto.

L’Agenzia delle Entrate spesso provvede a notificare degli avvisi di accertamento sull’errato assunto che per ottenere le agevolazioni fiscali per la prima casa entrambo i coniugi devono rendere a rogito notarile le dichiarazioni previste per legge.

Nulla di più falso: la norma tributaria riconosce i benefici fiscali non distinguendo tra acquirente contraente e acquirente non contraente in quanto il regime agevolato segue l’effetto dell’acquisto del bene e se ne avvantaggia chi acquista (entrambo i coniugi in comunione legale ai sensi dell’art. 177 c.c.) e non certo chi stipula l’atto. In tal senso si è espressa recentemente la Commissione Tributaria Regionale del Lazio con sentenza n°597/14/12.

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Il fisco non la beve!

Abbiamo titolato scherzosamente questo nostro breve intervento “il fisco non la beve”, poiché negli ultimi anni si è assistito a un notevole incremento di accertamenti posti in essere dall’Agenzia delle Entrate, volti a ricostruire i ricavi delle attività alberghiere e di ristorazione in base al consumo di acqua minerale, all’utilizzo di tovaglioli o di lenzuola da parte dei clienti.

Detto tipo di accertamento tecnicamente viene definito analitico-induttivo e sostanzialmente consiste nel contestare al contribuente dei maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, non solo  sulla base di prove dirette (fatture e altri documenti), ma anche, e spesso, sulla base di presunzioni qualificate, ovvero gravi, precise e concordanti.

Orbene, il fondamento normativo da cui trae origine detta attività di accertamento è da individuarsi nell’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973, che dispone: “l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”.

Dunque, se l’attività presuntiva dell’Amministrazione Finanziaria è normativamente prevista dobbiamo tuttavia sincerarci, mediante una breve analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, entro quali limiti è ammesso l’utilizzo, nei casi sopra individuati, dell’accertamento analitico-induttivo.

In materia di ristorazione spesso si prende a riferimento il numero dei tovaglioli lavati ricavando da questi il numero dei pasti realmente consumati dai clienti. Pertanto, se da una verifica risultasse che il numero dei tovaglioli fosse notevolmente maggiore dei pasti consumati dagli avventori, l’Agenzia potrebbe procedere alla contestazione dei presunti maggiori ricavi e recta via alla rideterminazione del reddito d’impresa

E’ bene precisare che detta ricostruzione induttiva dei ricavi deve tenere conto anche di ulteriori utilizzi, come ad esempio i tovaglioli impiegati in cucina, quelli utilizzati dai camerieri e quelli riservati in genere all’autoconsumo. Difatti, una recente pronuncia della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sentenza n°58/5/2013, ha ritenuto illegittima l’attività accertatrice dell’Ufficio sull’assunto che quest’ultimo“ha considerato 21.200 tovaglioli per i coperti con un abbattimento del 25%. senza considerare il notevole uso dei tovaglioli in cucina come strofinacci e in sala per portare il vino, per coprire i cestini del pane, per i tavoli a buffet, per i tavoli per gli aperitivi, per i tavoli del coffee break, ecc. e per i pasti somministrati ai dipendenti e collaboratori e per l’autoconsumo”   e inoltre “non ha considerato la capienza dei locali, i giorni di apertura e i turni di servizio”.

Cosa dire invece  dell’accertamento basato sul numero di bottiglie d’acqua consumate dai clienti?

In questo caso la Corte di Cassazione con sentenza n°17408/2010, ha dichiarato la legittimità dell’operato dell’Ufficio poichè la quantità di acqua minerale consumata nell’attività di ristorazione era notevolmente eccedente da quella che può essere consumata dai singoli avventori secondo il numero dei pasti dichiarati dal titolare del ristorante. Ciò nonostante, la Corte ha voluto comunque precisare che “la flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento proprio nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica. Ogni sforzo, quindi, va compiuto per individuare la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la situazione concreta (confronto che può essere anche vincente per gli strumenti presuntivi allorchè i dati forniti dal contribuente risultino inattendibili).”

Diversa e più complessa è la questione dell’accertamento c.d. lenzuolometrico, cioè basato sul numero di lenzuola lavate dalla struttura ricettiva.

Con la sentenza n°12/12/2013, la Commissione Tributaria Regionale della Liguria, ha dichiarato l’illegittimità dell’accertamento basato sul numero di lavaggi delle lenzuola poiché “l’accertamento doveva tener in maggior conto quanto rilevabile dalle fatture attive e dalle ricevute fiscali, dalle quali risultava l’utilizzo di camere matrimoniali anche da parte di persone singole, che i bambini al seguito dei genitori non pagavano la tariffa piena e che nel periodo invernale le tariffe applicate erano più basse, rispetto alle tariffe minime indicate nello studio di settore. Tali elementi hanno determinato una riduzione dei ricavi” inoltre, prosegue la Commissione “sulla bassa redditività dell’esercizio ha inciso anche l’elevato importo del canone di locazione che ammontava a Euro. *** più aggiornamento annuale ISTAT, come rilevabile dal contratto di locazione in atti ed inoltre sono state sostenute spese di ristrutturazione dell’albergo per Euro. ***;

Concludendo, le presunzioni reperite nel corso di attività ispettive per avere una certa attendibilità devono essere adeguate alla natura del soggetto interessato, alla specifica attività svolta e alle sue dimensioni. Va comunque precisato che l’attività di accertamento degli uffici finanziari deve svolgersi nel rispetto delle cautele previste anche dallo Statuto del Contribuente per evitare arbitrii e la violazione dei fondamentali diritti del contribuente.

Studi di settore: nullità dell’avviso di accertamento

studi settore

Riferimenti:
Corte di Cassazione, sentenza n°6971/2015.

Mi capita spesso di costatare nell’ambito della mia attività professionale la totale noncuranza da parte dell’Agenzia delle Entrate dei principi che regolano i rapporti tra contribuente e Fisco come, ad esempio, i principi di collaborazione e buona fede espressi agli artt. 10 e 12 della L. n°212/2000, oppure del principio di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost.

E’ frequente, poi, nel caso degli studi di settore, che il Fisco si “dimentichi” di esporre nell’avviso di accertamento notificato al contribuente le ragioni per le quali ha disatteso le argomentazioni e/o giustificazioni offerte da quest’ultimo nel corso del contraddittorio endoprocedimentale.

Ricordiamo che è fatto obbligo al Fisco, a pena di nullità dell’intero procedimento impositivo, prima di emettere un avviso di accertamento fondato sugli studi di settore, invitare il contribuente a spiegare le eventuali ragioni delle incongruenze dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli accertati dall’Agenzia. Inoltre, qualora il contribuente ottemperando all’invito notificatogli, trasmette le proprie deduzioni o idonea documentazione volta a spiegare la propria reale situazione, l’Ufficio è tenuto a indicare nell’avviso di accertamento le ragioni per le quali ha inteso rigettare le giustificazioni fornite dal contribuente.
Si tratta di un tipico caso in cui l’obbligo di motivazione (c.d. in replica) dell’atto sorge per effetto di un’attività del contribuente.

Interessante, sul punto, è la recentissima sentenza n°6971/2015 della Corte di Cassazione che ha affermato il principio secondo cui “in sede di contraddittorio preventivo il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, per altro verso, che la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento dai parametri, altrimenti vanificandosi del tutto le finalità del contraddittorio, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con l’indicazione delle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

Per il che, l’Ufficio può motivare l’accertamento esclusivamente in base dell’applicazione degli “standards”, nella sola ipotesi in cui il contribuente non aderisca all’invito al contraddittorio, rimanendo del tutto inerte. In tal caso, infatti, l’Amministrazione – in assenza di elementi di segno contrario offerti dal soggetto sottoposto ad accertamento – non potrà che dare conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, mentre la mancata risposta da parte di quest’ultimo dovrà essere valutata dal giudice, nel quadro probatorio emergente dagli atti del giudizio” (Cass.S.U. 26635/09; Cass. 11633/13).

In sostanza, gli Ermellini riferiscono che la mancanza dell’elemento cardine motivazionale, e cioè l’argomentazione ad contrariis sugli elementi probatori offerti dal contribuente nel corso del contradditorio, si configura come un insanabile vizio di motivazione che, inficiando tutto l’atto accertativo, ne determina la nullità.
L’Ufficio non può trasformare un adempimento sostanziale, qual è il contraddittorio, in una formalità senza senso!

Avviso di rettifica classe e rendita catastale con procedura docfa

Riferimenti:

Corte di Cassazione, sentenza n°5580/2015;

Commissione Tributaria Regionale di Perugia, sentenza n°166/3/2015;

Commissione Tributaria Regionale di Napoli, sentenza n°68/7/2015;

In un mio recente articolo pubblicato su questo sito ho dato risalto alle problematiche inerenti al provvedimento di rettifica/rigetto della classe, della categoria e della rendita di immobili proposte con la c.d. procedura DOCFA.

In particolare, è stata analizzata la pronuncia n°3394/2014 della Corte di Cassazione che ha dichiarato l’illegittimità di un provvedimento di rettifica della classe e della rendita di un’unità immobiliare, emesso e notificato dall’Agenzia delle Entrate Ufficio del Territorio sull’assunto che quest’ultima “non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal contribuente con la Dofca viene disattesa”.

Ebbene, suddetto principio (l’Ufficio non può disattendere il classamento basato sulla procedura DOCFA senza idonea motivazione) è stato ulteriormente ripreso e argomentato dai giudici di legittimità con la recentissima sentenza n°5580/2015.

In particolare, gli Ermellini affermano che “qualora l’attribuzione della rendita catastale avvenga a seguito della procedura disciplinata dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 1993, n. 75, e dal D.M. 19 aprile 1994, n. 701 (cosiddetta procedura DOCFA), l’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento è soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, la motivazione dovrà essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso”.

Interessante in materia sono, inoltre, alcune attualissime pronunce delle Commissioni Tributarie di merito che ritengo utile richiamare.

Commissione Tributaria Regionale di Perugia n°166/3/2015

“L’Ufficio non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal contribuente con la procedura Docfa viene disattesa. Principio questo chiaramente enunciato nell’Ordinanza n. 3394 del 13.02.2014 della Cassazione. Del resto l’atto di revisione non è atto processuale bensì atto amministrativo e la sua motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso”.

Commissione Tributaria Regionale di Napoli n°68/7/2015

“La variazione di classamento operata di Ufficio non appare adeguatamente motivata, giacchè l’avviso di accertamento è privo di alcun richiamo specifico idoneo a dimostrare la diversa valutazione, dato anche il difetto di previa ispezione dell’immobile.

Siffatta carenza di motivazione determina, per tale profilo, l’illegittimità dell’avviso di accertamento, alla stregua dell’insegnamento della Suprema Corte nella sentenza n. 5717 del 2000 e nella sentenza n. 4059 del 2000.

Legittima, sotto il profilo procedurale, è l’assenza della previa ispezione, trattandosi di originaria procedura DOCFA.

Tuttavia, l’accertamento manca dell’indicazione del criterio di stima seguito, dei coefficienti di degrado, dei prezzi di mercato, della provenienza, delle procedure del calcolo di superfici e volumi.

Nella specie, l’atto non risulta motivato ed è privo di qualsivoglia riferimento ai criteri di valutazione. Invero, si tratta di una scheda sintetica contenente le sole indicazioni catastali per l’identificazione dell’immobile in cui non v’è il benché minimo riferimento concreto alle caratteristiche, ai pregi, all’ubicazione, al valore degli immobili vicini, ad una qualsivoglia attività ispettiva o comparativa.

In mancanza di qualsivoglia supporto tecnico o motivazionale della diversa valutazione operata. Osserva il Collegio, innanzitutto, che legittimi e comunque non contestati, nemmeno incidenter tantum, si appalesano i regolamenti e gli atti amministrativi generali, costituenti il presupposto para-normativo del Classamento, disapplicabili dal giudice tributario investito della singola res controversa, ma solo se e solo in quanto si palesassero illegittimi (artt. 4 e 5 L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E; cfr. Cass. trib. 10.06.2008, nr. 15285).

Nella concreta fattispecie, il classamento proposto dal Contribuente è stato disatteso dall’Agenzia del Territorio con variazione in pejus soprattutto della rendita”.

L’avviso Irpef deve contenere l’esatta aliquota applicata

tribunale82


Riferimenti:

Sentenza della Corte di Cassazione n°7635/2014;

Art. 42 del D.P.R. n°600/1973.

Con sentenza n°7635/2014, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità di un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia ha proceduto alla rettifica della dichiarazione dei redditi ai fini IRPEF, poichè  nell’atto l’Amministrazione Finanziaria  non aveva riportato con esattezza l’aliquota applicabile al caso concreto ma, in via del tutto generale, le aliquote minime e massime.

Gli Ermellini, infatti, con la sentenza in commento, sostengono che  “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’avviso di accertamento che non riporti l’aliquota applicata, ma solo l’indicazione delle aliquote minima e massima, viola il principio di precisione e chiarezza delle indicazioni che è alla base del precetto di cui al D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, art.42, il quale richiede che sia evidenziata l’aliquota applicata su ciascun importo imponibile, al fine di porre il contribuente in grado di comprendere le modalità di applicazione dell’imposta e la ragione del suo debito, senza dover ricorrere all’ausilio di un esperto”.

Orbene, a volte capita di sottovalutare la portata, sotto il profilo dei requisiti di precisione e dettaglio, del disposto di cui all’art. 42 del D.P.R. n°600/1973, e di conseguenza non eccepire in sede giudiziaria eventuali mancanze in tal senso dell’Agenzia delle Entrate che potrebbero invece condurre a una declaratoria di illegittimità degli atti posti in essere da quest’ultima.

In particolare, la precisione e la chiarezza sono elementi che non possono mai mancare negli atti posti in essere dall’Amministrazione Finanziaria e che tendono a incidere nella sfera giuridica del destinatario, ciò perché il contribuente deve immediatamente e agevolmente comprendere l’operato dell’Ufficio, verificando anche con una semplice operazione contabile l’esattezza del calcolo delle imposte dovute, senza ricorrere a complesse cognizioni tecniche o, finanche, a esperti in materia. In sostanza, l’obbligo di motivazione dell’atto è assolto tutte le volte in cui il contribuente astrattamente sia messo in grado dall’Ufficio di cogliere le ragioni dell’accertamento e l’esattezza dei calcoli posti alla base dell’atto notificatogli.

Preavviso di fermo e periculum in mora

equitalia

Riferimenti:

Art. 7 della L. n°212/2000 (statuto del contribuente);

art. 3 della L. n°241/1990;

CTP di La Spezia, sentenza n°337/3/2014;

CTP di Roma, sentenza n°269/1/2007;

CTP di Bari, sentenza n°276/1/2011.

L’art. 86 del D.P.R. 602/1973 dispone che decorso inutilmente il termine di sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento senza che il contribuente abbia versato le somme dovute, il concessionario può disporre il fermo dei beni mobili del debitore. Detta norma, com’è facile constatare, nulla dice circa la motivazione di tale misura cautelare né viene richiesta la sussistenza del requisito del periculum in mora, sia in rapporto all’entità del credito sia in merito alle condizioni economiche in cui verserebbe il creditore tali da far temere l’infruttuosità di una azione esecutiva.

Ciò nonostante, la Commissione Tributaria Provinciale di La Spezia , con la recentissima pronuncia n°337/3/2014 ritiene che il periculum in mora sia un requisito essenziale per poter azionare la misura cautelare del fermo amministrativo, lo stesso dicasi per l’ipoteca disciplinata all’art. 77 del D.P.R. 602/1973.

In particolare, i Giudici spezzini, nel dichiarare l’illegittimità di un’iscrizione di fermo amministrativo, hanno ritenuto che “la natura cautelare che il legislatore ha previsto per garantire il procedimento di riscossione dei crediti pubblici (artt.86 e 77 del D.P.R. 602/1973) consente che ad essi si ricorra unicamente nei casi in cui vi sia pericolo per la riscossione nel mentre della procedura esecutiva (periculum in mora).

In particolare il provvedimento di preavviso di fermo deve essere motivato in modo congruo e specifico, in quanto deve individuare le specifiche esigenze che giustifichino la misura cautelare sia in rapporto all’entità del credito tributario e sia in relazione alle circostanze, proprie del debitore, che inducano a temere la compromissione delle garanzie del credito”.

Sul punto, occorre precisarlo, non vi sono pronunce da parte della Corte di Cassazione, ma solo alcuni precedenti favorevoli al contribuente tra cui la sentenza n° 269/1/2007 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma e la sentenza n° 276/1/2011 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari.

Nuova partnership dello studio in materia di rapporti con gli istituti bancari

logo rosersLo studio legale e tributario Sgrò, da sempre sensibile alle problematiche che coinvolgono i singoli cittadini e le imprese, con particolare attenzione all’ambito tributario, comunica di aver stretto un’importante e proficua partnership con la Rosers S.r.l., società esperta nella rilevazione di anomalie nei rapporti contrattuali tra Istituti bancari e i loro clienti.

In particolare, la Rosers S.r.l. si occupa di esaminare i rapporti di mutuo, conti correnti, contratti di leasing ecc. al fine di valutare la correttezza dei tassi applicati dagli Istituti di credito, procedendo, qualora ne ricorrano i presupposti, ad azioni di recupero delle somme versate ingiustamente dai cittadini e/o alla richiesta di indennizzo e/o risarcimento danni.

Detta partnership è stata fortemente voluta da entrambo le parti poiché, così come accade frequentemente di ricevere dall’Agenzia delle Entrate o da Equitalia illegittime intimazioni di pagamento o essere sottoposti a vessatorie procedure esecutive, è altrettanto frequente vedere istituti bancari operare in spregio alla normativa vigente.

Pertanto, se sei interessato a una valutazione in merito al rapporto con un Istituto di credito contatta lo studio legale: tel. 06.68891896 oppure inviando una email a info@studiolegalesgro.com.

Nullità ipoteca iscritta da equitalia

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Riferimenti:

art. 77 del D.P.R. n°602/1973;

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sent. n°19667/2014;

Corte di Cassazione, sent. n°9270/2015.

E’ nulla l’iscrizione d’ipoteca da parte di Equitalia in mancanza della preventiva comunicazione al contribuente. Questo è il principio espresso recentemente dalla Corte di Cassazione a Sezione Unite con la sentenza n° 19667/2014.

Ancor più recente, in materia, è la sentenza n° 9270/2015 con cui la Corte di Cassazione ha affermato il principio di cui sopra tracciato dalle Sezioni Unite, estendendolo anche alle iscrizioni ipotecarie effettuate prima dell’entrata in vigore dell’obbligo di comunicazione preventiva di cui all’art. 77, comma 2 bis, del D.P.R. n°702/1973, così come introdotto dal D.L. n°70 del 2011.

In sostanza, gli Ermellini sostengono, giustamente, che deve essere applicato “ il principio affermato dalle sezioni unite (Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667), secondo cui anche nel regime antecedente l’entrata in vigore dell’obbligo di comunicazione preventiva dell’iscrizione di ipoteca D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 77, comma 2 bis, introdotto con D.L. n. 70 del 2011, l’amministrazione, prima di iscrivere ipoteca, ai sensi dell’art. 77, deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni – perchè egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto”.

Da quanto sopra ne consegue che l’Equitalia è tenuta a comunicare preventivamente al contribuente l’intenzione di procedere in via cautelare sui beni immobili di quest’ultimo, concedendogli un termine a difesa (trenta giorni) per decidere se versare le somme che si presumono inevase oppure presentare delle memorie difensive.

Pertanto, l’iscrizione d’ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente dev’essere dichiarata nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale”.

Pignoramento equitalia: ipotesi di illegittimità

Riferimenti:

Commissione Tributaria Regionale di Bologna, sentenza n°776/2/2014;

Cassazione Civile, ordinanza n°18252/2013.

E’ nullo l’atto di pignoramento mobiliare eseguito da Equitalia, qualora a seguito di contestazione del contribuente in merito alla mancata notifica della presupposta cartella di pagamento, l’agente per la riscossione non produca in giudizio la cartella che sostiene di aver notificato.

Questo è il principio espresso dalla Commissione Tributaria Regionale di Bologna con la sentenza n°776/2/2014, che ha annullato il pignoramento messo in atto dall’agente per la riscossione sull’assunto che “Equitalia non ha fornito la prova che le cartelle esattoriali siano state notificate, allegando solo l’avviso di ricevimento datato 08.09.2010 nel quale nulla è indicato, e quindi, non ha assolto l’onere del mittente del plico raccomandato la dimostrazione di fornire l’esatto contenuto, allorché risulti solo la cartolina di ricevimento ( Cass. 18252/2013) e nemmeno ha fornito la prova che tali cartelle fossero allegate all’atto di pignoramento”.

In verità i Giudici bolognesi non hanno fatto altro che riprendere un’importante principio di diritto  che si rinviene nella recente pronuncia della Corte di Cassazione con l’ordinanza n°18252/2013, e precisamente che “In caso di comunicazione  spedita  in  busta   raccomandata e  non  in  plico,  ove  il  destinatario  contesti   il   contenuto   della busta  medesima, è  onere  del  mittente  provarlo”.

Spesso Equitalia, al fine di intorbidare ulteriormente le acque, difronte alla contestazione del contribuente circa la mancata notifica della cartella di pagamento, produce in giudizio solo l’avviso di ricevimento sostenendo che detto avviso sia sufficiente a integrare la procedura di notifica e a provare la bontà dell’operato dell’agente per la riscossione e che, dunque, qualora il contribuente volesse contestare detto avviso dovrà proporre una querela di falso sull’integrità del contenuto.

Nulla di più errato, poiché è sempre e comunque onere del  mittente il plico  raccomandato  fornire  la  dimostrazione del suo esatto contenuto, sicché, in difetto di ciò, il successivo atto dovrà essere dichiarato nullo.

 

Aggio di riscossione: ipotesi d’illegittimità

Riferimenti:

– Art.17, comma 1, del D.lgs. n°112/1999

– Commissione Tributaria Provinciale di Milano, sentenza n°4682/24/2015.

Occorre inizialmente precisare, come riferito dagli stessi Giudici milanesi, che l’aggio di riscossione altro non è che una misura finanziaria che va ad aggiungersi al totale delle somme che il contribuente è tenuto a pagare, in caso di somme dovute all’Erario, al fine di compensare il rischio di insolvenza da parte del contribuente stesso.

Ai sensi dell’articolo 17, comma 1, del D.lgs. n°112/1999, l’attività dei concessionari, ossia gli agenti della riscossione, dev’essere remunerata con un aggio. Esso ha natura tributaria, poiché per il contribuente che è tenuto a pagarlo, integra il tributo iscritto a ruolo.

Va subito chiarito che il rischio d’insolvenza da parte del contribuente si può ravvisare solo se vi siano delle condotte poste in essere da quest’ultimo prima dell’iscrizione a ruolo, come nel caso di un avviso di accertamento emesso dalla P.A. e non opposto che ha costretto l’Amministrazione finanziaria a rimettere la questione ad Equitalia per la riscossione di quanto inevaso ma non, certamente, nei casi di iscrizione nel ruolo provvisorio in pendenza di un ricorso presentato dal contribuente/ricorrente.

Difatti, secondo la recentissima sentenza n°4682/24/2015 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano “per molti tributi, quali quelli versati a titolo provvisorio in pendenza di ricorso, tale rischio non è palesemente ravvisabile, poiché l’iscrizione nei ruoli esattoriali non rappresenta, come nel caso precedente, una misura eccezionale e coercitiva volta all’assunzione della somma dovuta, bensì una mera prassi di riscossione ordinaria. In questi casi, non palesandosi il “rischio”, non si giustifica il versamento dell’aggio, che, al contrario, si evidenzia come una ingiustificata sanzione accessoria”.

In sostanza l’aggio non è dovuto per la riscossione parziale posta in essere da Equitalia in pendenza di un ricorso innanzi all’autorità giurisdizionale.

Avv. Alessandro Sgrò

Avvisi ici delle case per le ferie

Riferimenti:

– art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 504 del 1992;

Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenze nn°6257/7/2015, 6258/7/2015 e 6259/7/2015);

Commissione Tributaria Regionale di Roma, sentenza n°273/6/2013.

In un recente articolo ho analizzato alcune recenti pronunce emesse dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma in merito al diritto all’esenzione ICI di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 504 del 1992,  di un ente ecclesiastico che adibisce un proprio immobile in parte a sede della comunità religiosa e in parte a casa per ferie con ospitalità rivolta a particolari categorie di soggetti.

La Commissione Tributaria d’Appello di Roma (sentenze nn° 1267/4/2014 e 287/22/2010), ha dichiarato l’illegittimità di alcuni avvisi di accertamento ICI notificati a un ente ecclesiastico poiché quest’ultimo aveva dimostrato in sede giudiziaria che la casa per ferie, gestita dall’ente nell’immobile oggetto di accertamento, non era rivolta a un pubblico indeterminato ma solo ed esclusivamente per l’accoglienza di studenti universitari lontani dalle proprie residenze e per la sola durata dell’attività didattica, con conseguente esclusione del periodo estivo. Secondo i giudici tributari, può legittimamente ritenersi che l’opera d’accoglienza, gestita al di fuori dei normali canali commerciali, risponda precipuamente a finalità sociali e religiose.

Orbene, lo scenario così come tracciato dalla giurisprudenza di merito sopra richiamata, ha trovato ulteriore conferma in primo grado dalle recentissime tre pronunce emesse dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenze nn°6257/7/2015, 6258/7/2015 e 6259/7/2015) a favore di altrettanti enti ecclesiastici difesi dallo scrivente studio Sgrò e dall’avv. Greatti.

Con la sentenza n°6257/7/2015 la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, ha dichiarato l’illegittimità di ben due avvisi di accertamento ICI per gli anni d’imposta 2008 e 2009, emessi nei confronti di un ente ecclesiastico poiché quest’ultimo, tramite i propri difensori, ha dimostrato in giudizio la sussistenza del requisito oggettivo in capo alla Congregazione ricorrente. Difatti era stata fornita adeguata prova che nell’immobile accertato, ove veniva esercitata attività di casa per ferie, l’ente ecclesiastico accoglieva delle studentesse fuori sede che versavano delle rette molto al di sotto dalle tariffe applicate da altre strutture ricettive presenti sul mercato di Roma.

Dello stesso tenore è la sentenza n° 6258/7/2015, emessa dalla CTP di Roma a favore di altro Ente Ecclesiastico, anch’esso difeso dallo studio legale Sgrò e dal collega Greatti, ove viene riconosciuto il diritto all’esenzione ICI nell’immobile in cui si esercita attività di casa per Ferie ospitante lavoratrici fuori sede sull’assunto che “l’offerta abitativa  non fosse rivolta ad una platea indiscriminata di destinatarie e che il pensionato fosse gestito dal ricorrente con modalità non esclusivamente commerciali, sia per l’esiguo compenso chiesto, sia per i criteri utilizzati per selezionare le potenziali ospiti”.

Infine, si segnala la sentenza n°6259/2015 con cui la CTP di Roma ha dichiarato l’illegittimità di ben tre avvisi di accertamento ICI per gli anni d’imposta 2007/2008/2009 poiché lo studio legale Sgrò e il collega, sono riusciti a dimostrare in sede giudiziaria che l’ente ecclesiastico pur titolare di partita IVA e con un significativo volume d’affari, negli anni interessati dagli avvisi di accertamento impugnati, ha svolto attività ricettiva con modalità tali da escludere la completa equiparabilità alle ordinarie strutture turistiche ricettive presenti nella città di Roma.

Le tre pronunce favorevoli ottenute dallo Studio, a cui si aggiunge la sentenza n°273/6/2013, emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma, sono state il frutto di un accurato esame della vicenda, dal reperimento di copiosa documentazione a sostegno dell’illegittimità degli avvisi notificati e da un efficace strategia difensiva volta non solo a sostenere le ragioni degli enti rappresentati ma anche a contrastare le difese della Pubblica Amministrazione.

Informazioni Cerved: ipotesi d’illegittimità dell’annotazione del fallimento

garante privacy

Riferimenti:

– art.11 del D.Lgs. n°196/2003 (Codice sulla Privacy)

Accade spesso che a seguito di un fallimento di una società di capitali, il socio della stessa e/o l’amministratore unico, soltanto per aver ricoperto delle cariche all’interno della società fallita, si vedano rifiutare dei finanziamenti da parte delle banche o altre società finanziarie perché dal “Dossier personale”, estratto dal sistema Cerved, risulta il fallimento della società in cui rivestivano in passato una carica sociale.

E’ evidente che l’associazione dell’informazione a un evento pregiudizievole che non li riguarda direttamente poiché riferibile solo ed esclusivamente alla società fallita, arreca un enorme pregiudizio alla reputazione della persona fisica, giacché il segnalato accostamento è suscettibile di far travisare caratteri e qualità professionali e imprenditoriali dell’interessato, pregiudicandone l’affidabilità commerciale, in ragione di fatti per i quali non risulta provata l’ascrivibilità allo stesso.

La questione dev’essere trattata al cospetto dell’art.11, comma 1, lett. a) e d) del Codice sulla Privacy, che richiede non solo che i dati personali debbano essere trattati in modo lecito e corretto ma anche in modo completo e pertinente e non devono in nessun caso eccedere rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati.

Ora, la Cerved Group S.p.A. (di seguito, “Cerved”), com’è noto, gestisce delle banche dati costituite presso di sé estraendo informazioni da altri archivi (formati da soggetti pubblici e privati) al fine di fornire alla propria clientela (composta per lo più da professionisti e operatori economici, quali banche, finanziarie, imprese e agenzie d’informazioni) servizi aventi contenuto informativo nell’ambito della c.d. business information.

Il novero dei soggetti censiti dalla società è, dunque assai ampio: si tratta di società, imprenditori individuali o persone fisiche, rispetto alle quali vengono fornite informazioni relative a c.d. “cariche/qualifiche gestionali”, partecipazioni societarie, protesti, pregiudizievoli di conservatoria, dai quali si può desumere la loro “affidabilità commerciale” alla luce degli eventi pubblici rilevanti censiti.

I dati, però, contenuti nei dossier che riguardano un determinato soggetto giuridico devono riferirsi direttamente a questi.

Nel perseguimento della propria finalità informativa realizzata rispetto alle persone fisiche (tramite il c.d. “dossier persona”), come più volte ribadito dal Garante della Privacy, è da censurare la condotta del Cerved che nella rappresentazione dei dati personali contenuti nei dossier associa alle informazioni personali relative ai soggetti censiti anche eventi che si riferiscono a terzi presso cui tali soggetti hanno operato o rivestito cariche (ad esempio, nel “dossier persona”, vengono associate informazioni relative a procedure concorsuali delle c.d. “imprese connesse”).

In sostanza il Garante della Privacy, ha ritenuto illegittima l’indicazione nel “dossier persona” del fallimento di società nell’ambito dei prodotti informativi relativi a persone fisiche, poiché non risulta pertinente rispetto alla finalità di fornire informazioni commerciali. Trattasi, a parere del Garante, di un evento (pregiudizievole) accaduto in relazione a terzi (e, in particolare, alla società in cui le persone fisiche avevano operato), rispetto al cui verificarsi l’ordinamento prevede una responsabilità personale in capo ai soggetti che rivestono le qualifiche dagli stessi ricoperte solo in casi residuali e accertabili giudizialmente (cfr. artt. 2462 e 2476 cod. civ.; art. 146 r.d. 16 marzo 1942, n. 267).

La menzionata associazione effettuata da Cerved è suscettibile di mettere in cattiva luce il soggetto cui l’informazione viene a riferirsi: in questi casi l’interessato potrebbe vedere incrinato il proprio diritto meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato nella vita di relazione, con la sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, generale e particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva.

Tenuto conto dei molteplici provvedimenti del Garante della Privacy in materia*, possiamo certamente concludere che l’informazione relativa a un evento che ha interessato una società –informazione comunque sempre reperibile, anche attraverso il “dossier impresa” riferito ad essa– non può essere associata direttamente e immediatamente a soggetti che abbiano operato o rivestito cariche in essa, trattandosi, per l’appunto, di entità diverse.

Avv. Alessandro Sgrò

* Per maggiori info sulla procedura di cancellazione al Cerved o per visionare i provvedimenti in materia da parte del Garante della Privacy invia una mail al seguente indirizzo: info@studiolegalesgro.com

Atti firmati dai c.d. falsi dirigenti

Riferimenti:

Corte Costituzionale, sentenza n°37/2015.

Ben nota a tutti è la sentenza n°37/2015 con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che ha consentito all’Agenzia delle Entrate di nominare figure dirigenziali senza un regolare concorso pubblico.

Tralasciando, per ora, la vicenda processuale che è culminata con la declaratoria d’illegittimità costituzionale di cui sopra, ciò che appare interessante esaminare sono le conseguenze che detta pronuncia può avere nei confronti dei contribuenti che si sono visti notificare, per lungo tempo, atti sottoscritti da soggetti che hanno ricoperto una posizione dirigenziale con procedura ab origine viziata.

La voce che maggiormente si è diffusa all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale è di ritenere tutti gli atti firmati dai c.d. falsi dirigenti come giuridicamente inesistenti, con la conseguente possibilità di impugnare detti atti (ed eventuali iscrizioni a ruolo) anche se spirati i termini per proporre ricorso innanzi alle autorità giudiziarie. Difatti, tecnicamente, colui che vuol far valere in giudizio l’inesistenza di un atto impositivo non è vincolato da termini e il giudice può rilevare detto vizio anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

Sulla scorta di tal entusiastica e, me lo permettete, ottimistica prospettiva, alcuni contribuenti hanno preso contatto con lo studio per valutare l’opportunità di ricorrere avverso avvisi di accertamento o cartelle di pagamento mai oggetto di opposizione essendo abbondantemente trascorsi i termini per proporre ricorso.

A parere di chi scrive, il diffuso ottimismo non appare condivisibile, almeno nei termini dell’inesistenza giuridica degli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate.

Difatti, l’atto tributario è inesistente solo quando non è conforme al modello legale e quando tale difformità è talmente rilevante da impedire che all’atto possa riconoscersi natura provvedimentale. Nel caso, invece, di atti sottoscritti da chi non aveva il relativo potere sarebbe più corretto ragionare in termini di nullità. Occorre non dimenticare che la categoria della nullità in re tributaria è ben diversa da quella disciplinata dal diritto amministrativo e che il diritto tributario è un sottosistema del diritto amministrativo, pertanto le disposizioni delle leggi fiscali (che disciplinano la medesima materia), avendo natura speciale, prevalgono sulle norme di carattere generale della L. n°241 del 1990.

In termini concreti, per far valere la nullità di un atto impositivo emesso dall’Agenzia delle Entrate o dall’Agente della riscossione, il contribuente deve proporre ricorso entro il termine previsto dalla legge e non in qualunque momento, come potrebbe accadere nel caso in cui si eccepisse l’inesistenza dell’atto opposto. Pertanto, l’eccezione circa la nomina del dirigente che ha sottoscritto l’atto notificato può essere fatta valere solo per i provvedimenti impositivi i cui termini per la proposizione del ricorso non siano ancora spirati.

Chiaro, che in quest’ultimo caso, l’eccezione del contribuente è totalmente “al buio” poiché quest’ultimo difficilmente è in grado a priori di sapere se chi ha sottoscritto l’atto era effettivamente un dirigente nominato senza un regolare concorso. Ad ogni buon conto, innanzi a un’eccezione del genere è sempre onere del Fisco provare in giudizio i requisiti di validità della nomina del dirigente. Se ciò avvenisse, è bene precisare che il contribuente potrebbe essere condannato al pagamento delle spese del giudizio; inoltre la controparte potrebbe chiedere al Giudice, finanche, la liquidazione dei danni per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.. A tal proposito, si precisa che il carattere temerario della lite – che costituisce presupposto necessario per la condanna al risarcimento dei danni – va ravvisato nella consapevolezza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di tale consapevolezza.

E’, dunque, consigliabile, formulare nel ricorso ulteriori e plausibili eccezioni riferite all’atto da impugnare e non unicamente la questione decisa dalla Corte Costituzionale.

Si tenga conto, poi, che l’Amministrazione Fiscale, anche nelle more del giudizio e purché ancora nei termini, potrà sempre emanare un nuovo provvedimento sottoscritto regolarmente dal dirigente nominato con concorso o, comunque, dal capo ufficio ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n°600/1973 (si parla in questi casi della c.d. autotutela sostitutiva).

Stante quanto sopra, non è certamente mia intenzione scoraggiare i contribuenti nell’intraprendere delle azioni legali nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, ma solo di fornire, almeno spero, una più equilibrata valutazione dell’intera vicenda; fermo restando che sul tema è comunque davvero complesso trarre delle univoche conclusioni.

Cartella di pagamento ai soci di una s.r.l.

soci

Riferimenti:

art. 2462 c.c.

art. 2495 c.c.

Cass. Civ. Ord. n°8701/2014

Una domanda interessante che spesso viene posta dai soci o amministratori di una S.r.l. è se sussiste una loro personale responsabilità per i debiti tributari contratti da una società oramai estinta.

La risposta ci è offerta dall’art. 2495 c.c.. Detta norma dispone che successivamente alla cancellazione della società, ferma restando l’estinzione della stessa, i creditori sociali (dunque anche il Fisco) non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.

Dunque, dalla norma in esame non sussiste alcun dubbio che la responsabilità per i debiti tributari, anche in caso di estinzione della società, può passare dalla S.r.l. ai singoli soci o amministratori.

Tuttavia, sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione che con la recentissima ordinanza n°8701/2014 ha precisato che per aversi il c.d. passaggio di responsabilità dalla società estinta ai singoli soci è indispensabile la notifica a questi ultimi di “un avviso di accertamento cioè un motivato provvedimento impositivo in cui si evidenzino le ragioni di questo passaggio”. Secondo, dunque, i giudici di legittimità, l’Amministrazione Finanziaria non potrebbe procedere all’iscrizione a ruolo delle somme inevase da una società cancellata dal registro delle imprese  senza prima notificare ai singoli soci o amministratori un apposito avviso di accertamento ove risulti il passaggio di responsabilità

Pertanto la cartella di pagamento notificata ai soci personalmente deve essere dichiarata illegittima tutte le volte che non sia preceduta da un avviso di accertamento che indichi i motivi della loro chiamata in causa quali debitori al posto della società estinta.

 Detto avviso, inoltre, come precisato più volte dalla Corte di Cassazione, deve spiegare dettagliatamente il presupposto dell’eventuale responsabilità del socio. In altri termini è sempre onere del Fisco provare che, in base al bilancio finale di liquidazione, vi sia stata la distribuzione di una quota dell’attivo ai soci e che questa sia stata riscossa.

ATTENZIONE:

secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale la notifica di una cartella di pagamento a società dichiarata cancellata dal registro delle imprese e, dunque, giuridicamente estinta deve considerarsi nulla. Pertanto un’eventuale notifica potrà farsi solo ai soci ma con tutte le cautele di cui sopra.

Le sanzioni non sempre sono dovute!

 

Riferimenti:

Art. 5 del D.Lgs. n°472/1997;

Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso, sent. n°179/1/2013;

Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sent. n°258/29/2012.

In un periodo di forte contrazione economica, come quello che stiamo vivendo, succede che le piccole e medie imprese non riescano con tempestività a versare al fisco le somme a quest’ultimo dovute. Ciò, ovviamente, non impedisce all’Amministrazione Finanziaria di procedere in via esecutiva per il recupero di delle somme inevase.

Se quanto sopra è vero è altrettanto certo quello che da sempre lo scrivente studio sostiene anche in sede giudiziaria, e precisamente che qualora  l’omesso pagamento del tributo è stato provocato da ripetuti ritardati pagamenti delle somme dovute al contribuente da soggetti pubblici e/o privati, quest’ultimo non può rispondere anche delle sanzioni amministrative irrogate per l’omesso o ritardato pagamento poiché esulerebbe l’elemento soggettivo della colpa ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs 472/1997.

Difatti, la norma in esame stabilisce che “Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”. In sostanza, detta norma  richiede non solo che il soggetto abbia agito con coscienza e volontà ma anche che egli sia colpevole, ovvero che gli si possa rimproverare un comportamento quantomeno negligente.

E’ palese che l’assenza di colpa, ovvero di avere fatto uso dell’ordinaria diligenza per rimuovere l’ostacolo frapposto all’esatto adempimento delle obbligazioni,  dev’essere rigorosamente provata in giudizio al fine di evitare il versamento delle somme richieste a titolo di sanzione amministrativa.

Sul punto, appare interessante una recentissima pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso (sentenza n°179/1/2013) che a seguito di ricorso proposto dal contribuente ha dichiarato la parziale nullità di una cartella di pagamento con riferimento alle sole sanzioni amministrative.

 Nel caso sottoposto all’attenzione della Commissione Tributaria molisana, il contribuente aveva dimostrato in giudizio che il Comune di Campobasso, per il quale svolgeva prevalentemente in appalto la sua attività, aveva effettuato con ritardo notevolissimo (anche di otto mesi) i pagamenti dovuti al ricorrente per centinaia di migliaia di Euro, tanto da costringere la società allo sconto delle fatture presso le banche con notevoli perdite economiche.

Ha, altresì, provato documentalmente che anche per la restante attività svolta in regime di subappalto per imprese private doveva ancora percepire importi rilevanti.

La Commissione giudicante, valutata la copiosa documentazione depositata dal ricorrente, constatava che quest’ultimo “ in più occasioni ebbe a sollecitare i pagamenti che le erano dovuti, si premurò di scontare le fatture in banca con evidenti notevoli perdite economiche, dovette richiedere un mutuo alla banca, dovette contrarre debiti verso i fornitori ed i propri dipendenti per somme ingenti e richiedere dilazioni di pagamento alla stessa A.F. per le annualità precedenti.

E’ di tutta evidenza, a questo punto che la ricorrente ha ampiamente fornito la prova di avere usato tutta la ordinaria diligenza possibile per rimuovere l’ostacolo frapposto all’esatto adempimento della obbligazione tributaria, anche mediante reperimento di altre fonti finanziarie, sì che deve necessariamente escludersi che nel suo comportamento sia ravvisabile la colpa. Deve pertanto essere annullata la opposta cartella limitatamente alle sanzioni ed agli interessi”.

Sul punto, si segnala anche la sentenza n°258/29/2012 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che precisa “quando l’inosservanza della norma è necessariamente ed inevitabilmente cagionata da una forza esterna al soggetto obbligato, non sussiste il presupposto per la nascita dell’obbligazione delle soprattasse; ed è stato inoltre, sostenuto che, poiché anche la materia Fiscale si fonda su principi di correttezza ed equità, non può mai trovare giustificazione logica prima che giuridica, la punizione indiscriminata dell’incolpevole contribuente che versi, e lo provi, in stato di coatta incapacità economica”.

Avv. Alessandro Sgrò

Equitalia: iscrizione ipotecaria

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Ipotesi di illegittimità

Riferimenti:

art. 77 del D.P.R. n°602/1973

Corte di Giustizia Europea , Causa Sopropè C-349/07

Corte di Giustizia Europea, cause riunite C-129/13 e C-130/13;

Cass. Civ. SS.UU. sentenza n° 19667/2014;

E’ nota, per chi frequenta le aule tributarie, l’enorme resistenza da parte di alcune Commissioni nel riconoscere, difronte a un’eccezione del contribuente, l’illegittimità di un provvedimento per violazione del diritto del c.d. contraddittorio preventivo e, cioè, quel fondamentale diritto per ogni persona di essere sentita prima dell’adozione di qualsiasi provvedimento, sia se emanato dall’ente impositore e sia se emesso dall’agente per la riscossione, che possa incidere in modo negativo nella propria sfera di interessi.

In verità, detto diritto già da tempo è stato riconosciuto come un principio fondamentale dell’Unione Europea tanto che la Corte di Giustizia Europea in alcune sue recenti pronunce ha affermato che il diritto al contraddittorio, in qualsiasi procedimento, è attualmente non solo sancito negli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che garantiscono il rispetto dei diritti di difesa nonché il diritto a un procedimento equo, bensì anche dall’art. 41 che garantisce il diritto a una buona amministrazione, inteso come diritto di ascolto del destinatario prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo.

Conclude la Corte che in forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione, mediante una previa comunicazione del provvedimento che sarà adottato, con la fissazione di un termine per presentare eventuali difese od osservazioni. (Causa Sopropè C-349/07; cause riunite C-129/13 e C-130/13 Kamino International Logistic BV e Datema Hellman Wortwide Logistic BV.).

Ebbene, con la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, SS.UU. n°19667/2014, si è finalmente riconosciuto, anche nel nostro Paese, l’obbligo in capo all’amministrazione di attivare il c.d. contraddittorio endo-procedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente. Principio il cui rispetto è dovuto a prescindere che ciò sia espressamente previsto da una norma positiva.

In sostanza la Suprema Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’iscrizione di un’ipoteca, da parte di Equitalia, poiché non preceduta da un apposito preavviso. Difatti i giudici di legittimità hanno affermato che “l’Amministrazione prima di iscrivere ipoteca ai sensi dell’art. 77 del D.P.R. n°602/1973 deve comunicare al contribuente di procedere alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine, che per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni, perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto”.

La verità è che il principio espresso dalla Suprema Corte non è altro che un diritto da sempre riconosciuto dallo statuto del contribuente che alcune Commissioni Tributarie, per i noti problemi relativi al difetto d’imparzialità, ignorano.

Difatti da un’attenta lettura delle disposizioni di cui alla L. n°212/2000 emerge chiaramente (si leggano gli artt. 5,6, 7,10 e 12) la necessità di una decisione partecipata mediante l’instaurazione di un valido ed efficace contraddittorio tra amministrazione e contribuente. Del resto lo statuto del contribuente altro non è che un complesso di norme la cui funzione è di improntare l’attività amministrativa alle regole dell’efficienza e della trasparenza, realizzando l’inalienabile diritto di difesa del cittadino.

Notifica degli atti tributari alle società

Riferimenti:

– art. 145 c.p.c.;

– Corte di Cassazione, sentenza n°1307/2015.

L’art. 145 c.p.c. dispone che “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile in cui è la sede”.

La norma non lascia dubbi interpretativi: per ritenersi valida la notifica di un atto deve eseguirsi preliminarmente al legale rappresentante della società o persona addetta alla ricezione degli atti. Solo qualora venga accertata la loro assenza si potrà procedere alla consegna dell’atto da notificare al portiere dello stabile. Ciò deve comunque risultare dalla relazione di notificazione.

Sul punto la sentenza n° 1307/2015 della Corte di Cassazione è chiara: “nella logica della norma la consegna al portiere (così come la consegna “ad altra persona addetta alla sede”) non costituisce una indifferente alternativa, come sembra credere la parte ricorrente, circa l’identificazione del soggetto cui l’atto può essere consegnato, perchè richiede che da parte dell’ufficiale notificante sia accertata, come presupposto legittimante, la “mancanza” del “rappresentante della società” o della “persona incaricata di ricevere le notificazioni”.

Inoltre, l’eventuale consegna dell’atto a persona diversa del legale rappresentante, purché documentata, chiede all’agente notificatore un ulteriore e necessario documento e cioè l’invio di una raccomandata che informi il legale rappresentante della persona giuridica che l’atto è stato consegnato a persona diversa.

Difatti, la summenzionata sentenza precisa che “Occorre anche la prova che l’atto, non consegnato direttamente al destinatario effettivo, sia comunque pervenuto, e quando, nella “sfera di conoscenza” di questo ultimo, in particolare mediante la produzione della ricevuta della raccomandata, e in ogni caso del relativo avviso di ritorno, con la quale sia stata data al destinatario effettivo notizia della consegna dell’atto ad uno dei soggetti normativamente legittimati a riceverlo”.

La comunicazione d’irregolarità

La comunicazione d’irregolarità

(art. 36 bis D.P.R. n° 600/1973 e art. 54 D.P.R. n° 633/1972)

Le dichiarazioni presentate dai contribuenti sono di regola sottoposte a un primo controllo automatico da parte dell’Agenzia delle Entrate volto a verificare la correttezza formale e la tempestività dei versamenti. Cosa accade e come ci dobbiamo comportare se a seguito di detto controllo riceviamo una comunicazione di irregolarità o addirittura una cartella di pagamento? Scopriamolo insieme in questa breve disamina della materia.

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Rimborso IRAP

 

In alcuni articoli, che è possibile consultare sul nostro SITO, abbiamo dato conto sul recente orientamento dei giudici di merito e di legittimità in materia di IRAP per i professionisti. Con il presente contributo, invece, ci soffermeremo brevemente sull’istanza di rimborso che è possibile presentare, presso i competenti Uffici dell’Amministrazione Finanziaria, qualora si ritenesse di aver diritto alla restituzione delle somme  ingiustamente versate.

L’istanza di rimborso dev’essere inoltrata presso la competente Agenzia delle Entrate entro 48 mesi dal versamento effettuato. Sul dies a quo la Corte di Cassazione ha precisato che il termine decorre dalla data di versamento del saldo (in caso di eccedenza di versamenti in acconto rispetto a quanto dovuto a saldo), oppure dalla data di versamento dell’acconto (Cass. sent. n°21528/2009).

L’istanza può essere presentata a mano o mediante lettera raccomandata a.r. e deve contenere oltre ai dati del contribuente le motivazioni per le quali si chiede il rimborso versato.

L’agenzia avrà tempo 90 giorni decorrenti dalla ricezione dell’istanza per rispondere, altrimenti, in mancanza di risposta l’istanza dovrà considerarsi rigettata. A questo punto il contribuente, qualora ritenesse comunque valide le proprie ragioni, potrà ricorrere in Commissione Tributaria previo esperimento, a pena di improcedibilità, della procedura di reclamo/mediazione se il presunto credito vantato risulti inferiore a € 20.000,00.

Si rammenta che in sede contenziosa il contribuente potrà chiedere, in virtù del principio di concentrazione della tutela, non solo il rimborso delle somme indebitamente versate ma anche gli accessori come gli interessi e il maggior danno da svalutazione monetaria purché ne fornisca la prova ex art. 1224 c.c. (Cass. – Ordinanza n°28332 del 18/12/2013).

La prova consiste nel dimostrare che un pagamento tempestivo da parte dell’Amministrazione Finanziaria gli avrebbe consentito, mediante un saggio impiego della somma, di evitare o limitare gli effetti dell’inflazione.

Per la gestione di una pratica di rimborso invia una mail a: info@studiolegalesgro.com o contatta lo studio al numero: 06.68891896.

 

Irap per professionisti

Commissione Tributaria di Frosinone sentenza n°50/3/2014 

Con la sentenza in commento, si pone la questione della legittimità del versamento IRAP da parte del professionista che esercita la propria attività con esclusivo apporto di lavoro proprio.

Il caso, tratto dalla recentissima pronuncia della Commissione Tributaria di Frosinone, trae origine da un ricorso proposto da un medico di base contro l’Agenzia delle Entrate avverso il silenzio diniego formatosi sull’istanza di rimborso presentata dal professionista per l’imposta IRAP, pagata negli anni 2006/2009. Il ricorrente precisava, in sede giudiziaria, che alla luce delle disposizioni normative non sussistevano, nel caso di specie, i presupposti per l’applicazione dell’IRAP poiché esercitava la propria attività in forma non organizzata in quanto non utilizzava personale medico dipendente e/o collaboratore coordinato e utilizzava i beni strumentali minimi richiesti dalla convenzione con il S.S.N..

Orbene la Commissione Tributaria di Frosinone, con la sentenza n°50/3/2014, ha accolto le doglianze del professionista, riconoscendo il diritto al rimborso dell’imposta, ingiustamente versata, precisando che l’IRAP deve essere applicata “nei casi in cui il lavoro autonomo professionale, quale esso sia, si avvalga di una significativa o non trascurabile organizzazione di mezzi od uomini in grado di ampliare i risultati profittevoli atteggiandosi come contesto potenzialmente autonomo rispetto all’apporto personale rivolto ad un ruolo di indirizzo, coordinamento e controllo.

L’imposizione IRAP è legittimata solo al cospetto di una struttura organizzativa esterna del lavoro autonomo e cioè quel complesso di fattori dei quali il professionista si avvale e che per numero ed importanza sono suscettibili di creare valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili.

La ricchezza prodotta dall’impiego coordinato delle proprie facoltà mentali, attitudini e spirito di iniziativa costituisce profitto esclusivamente derivante dalla capacità del professionista che come tale non può essere assoggettata ad IRAP mentre è, invece, il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa, che coadiuva ed integra il professionista nelle incombenze ordinarie, ad essere interessata all’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale”.

Inoltre, aggiunge la Commissione giudicante, “Il fatto che il medico di base, ma qualunque libero professionista, utilizzi un segretario di studio non accresce la capacità produttiva del professionista. Vi sono, del resto, precedenti specifici secondo cui la presenza dì un solo dipendente part-time addetto alla porta ed alla pulizia dello studio non costituisce di per sé un elemento tale da concretizzare il presupposto di autonoma organizzazione come previsto dalla normativa I.R.A.P.” (ordinanza n. 18472 del 4 luglio 2008); cui si può affiancare, tra l’altro, l’ordinanza n, 14304 del 8 agosto 2012 secondo cui “deve essere confermata la sentenza di merito che ha escluso la applicabilità dell’IRAP ad un ragioniere che usufruisca di un dipendente part-time per poche ore (10) alla settimana” (adde da ultimo l’ordinanza n. 14304 del 8 agosto 2012 ed in tal senso Corte di Cassazione Sent. 25 settembre 2013, n. 22020).

Dunque, dalla condivisibile pronuncia della CTP di Frosinone, richiamandoci al consolidato orientamento della Corte di Cassazione in materia, possiamo certamente affermare che l’IRAP coinvolge una capacità produttiva che può non derivare da una struttura autosufficiente ma deve essere sempre impersonale e aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista (determinata dalla sua cultura e preparazione professionale) e colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da una struttura organizzativa “esterna”, cioè da “un complesso di fattori che, per numero, importanza e valore economico, siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista.

In sostanza “ non occorre che sussista una struttura di importanza prevalente rispetto al lavoro del titolare o addirittura tale da generare profitti anche senza lo stesso, ma è sufficiente che si realizzi un insieme di fattori che sia tale da porre il professionista in una condizione più favorevole rispetto a quella che si sarebbe attuata in mancanza” (Corte di Cassazione Sentenza n°22020/2013).

Notifica degli atti solo tramite poste italiane

Riferimenti:

Commissione Tributaria Regionale di Roma, sentenza n° 7408/6/2014.

Interessante è il recentissimo pronunciamento da parte della Commissione Tributaria Regionale di Roma che con la sentenza n°7408/6/2014, che ha annullato una cartella di pagamento notificata da parte di Equitalia sull’assunto che il precedente avviso di accertamento, emesso dall’Agenzia delle Entrate, doveva considerarsi come non notificato poiché quest’ultima aveva inviato il provvedimento impositivo con raccomandata tramite Agenzia Privata, anziché da Poste Italiane S.p.a..

Attenzione però alla strategia difensiva! Nel caso discusso innanzi alla Commissione Regionale del Lazio, il contribuente, si era opposto a una cartella di pagamento, recante tributi IRPEF e IVA, notificatagli da Equitalia, eccependo in via preliminare la mancata notifica dell’avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. Nel corso del giudizio l’Ufficio Finanziario, a dimostrazione della bontà del proprio operato, depositava un avviso di ricevimento da cui risultava che l’avviso di accertamento era stato notificato tramite un’Agenzia Privata e non tramite le Poste Italiane.

Pertanto, la Commissione Tributaria Regionale in riforma della sentenza emessa dai Giudici di prime cure ribadiva un fondamentale principio: “in tema di notificazione degli avvisi di accertamento, quando il legislatore prescrive, per l’esecuzione di una notificazione il ricorso alla raccomandata con avviso di ricevimento, non può che fare riferimento al cosiddetto servizio postale universale fornito dall’Ente Poste su tutto il territorio nazionale, con la conseguenza che, qualora tale adempimento sia affidato ad un’agenzia privata di recapito, esso non è conforme alla formalità prescritta dall’art. 140 cod. proc. civ., e, pertanto, non è idoneo al perfezionamento del procedimento notificatorio (cass. nn. 11095/2008, 20440 / 2006, 1233/2003).

Tanto nel presupposto, affermato dall’appellante, non contestato in questa sede e desumibile dagli atti, che il procedimento notificatorio di che trattasi, e segnatamente l’invio della raccomandata con avviso di ricevimento, non sia stato curato dall’Ente Poste, bensì da Agenzia Privata. Si ritiene, dunque, sussistano i presupposti per l’accoglimento, per manifesta fondatezza, dell’appello”.

Avv. Alessandro Sgrò

Cartella di pagamento a seguito di comunicazione di irregolarità

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Possibili difese

Riferimenti:

art. 36 bis del D.P.R. n°600/1973;

art. 54 bis del D.P.R. n°633/1972;

Cass. Civ. sentenza n° 5318/2012;

Comm. Trib. Reg. del Lazio sentenza n°545/14/2012.

Cass. Civ. ord. n° 8934/2014;

Capita con una certa frequenza di ricevere delle cartelle di pagamento che traggono origine dalle comunicazioni di cui all’art. 36 bis, in materia di imposte dirette, e art. 54 bis, per l’imposta sul valore aggiunto. Difronte a un’iscrizione a ruolo del genere la difesa del contribuente, in sede giudiziaria, risulta molto complessa in quanto dedurre semplicemente la mancata notifica della comunicazione, secondo la giurisprudenza di legittimità e di merito, non è causa di nullità o annullabilità della successiva cartella di pagamento, salvo quanto dirò in seguito circa il difetto di motivazione.

E’ bene però fare alcune precisazioni, poiché è frequente il caso in cui l’Agenzia delle Entrate disconosce illegittimamente mediante la mera procedura di liquidazione automatica eccedenze e crediti magari originati in periodi d’imposta precedenti.

Sul punto, secondo un ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione, l’attività di liquidazione e controllo automatizzato è consentita solo ove l’errore del contribuente sia rilevabile dal semplice controllo cartolare della dichiarazione. Difatti ai sensi dell’art. 36 bis del D.P.R. n°600/1973 e dell’art. 54 bis del D.P.R. n°633/1972, l’ufficio può correggere solo errori materiali o di calcolo, verificare la correttezza e tempestività dei versamenti ma non può certamente spingersi a effettuare valutazioni giuridiche sulla base della dichiarazione presentata.

Un’eventuale indagine sulla veridicità e correttezza legale della dichiarazione deve essere effettuata tramite la notifica di un avviso di accertamento e non mediante un controllo automatizzato.

In sostanza con la sentenza n° 5318/2012 gli Ermellini hanno dichiarato nulla la cartella di pagamento notificata al contribuente a seguito del controllo automatizzato poiché a parere dei giudici di legittimità “la diretta iscrizione a ruolo della maggiore imposta, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, è ammissibile, e può evitare l’attività di rettifica, quando il dovuto sia determinato mediante un controllo della dichiarazione meramente cartolare, sulla base dei dati forniti dal contribuente, o di una mera correzione di errori materiali o di calcolo.

Con tali modalità non possono, invece, risolversi questioni giuridiche o esaminarsi atti diversi dalla dichiarazione stessa (senza previamente contestare al contribuente il relativo accertamento con il prescritto avviso). Nella specie, la negazione della detrazione nell’anno in verifica di un credito dell’anno precedente, per il quale la dichiarazione era stata omessa, non può essere ricondotta al mero controllo cartolare, in quanto implica verifiche e valutazioni giuridiche, dovendo ritenersi che il disconoscimento dei crediti e l’iscrizione della conseguente maggiore imposta dovevano, pertanto, avvenire previa emissione di motivato avviso di rettifica”.

Dello stesso condivisibile avviso e la Commissione Tributaria Regionale del Lazio che con sentenza n°545/14/2012, ha disposto che “il disconoscimento di un credito d’imposta (nella specie, il credito d’imposta sugli incrementi occupazionali nelle aree svantaggiate) non può avvenire con un mero atto di iscrizione a ruolo ed è nulla la cartella di pagamento emessa senza preventiva notifica di un atto di accertamento.

Inoltre, non è possibile utilizzare la procedura ex art. 36-bis D.P.R. n. 600 del 1973 per rettificare l’ammontare del predetto credito d’imposta in quanto tale norma è utilizzabile solo nei casi tassativamente indicati dalla legge e, quindi, non di fronte a disposizioni di legge suscettibili di interpretazioni diverse, le quali esigono un motivato avviso di accertamento”

Altra ipotesi di difesa:

Ho accennato precedentemente che la mancata notifica al contribuente o al professionista abilitato della comunicazione di irregolarità di cui all’art. 36 bis e 54 bis, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, non può essere causa di nullità o annullamento della successiva cartella di pagamento. Tuttavia, il contribuente che ritiene di non aver ricevuto detta comunicazione potrà, qualora ne sussistano i presupposti, eccepire la nullità della cartella di pagamento per insufficiente e/o omessa motivazione dell’atto notificato.

Al riguardo è utile richiamare la recentissima ordinanza n°8934/2014 della Corte di Cassazione che ha ribadito un principio fondamentale in materia, e precisamente: “La cartella esattoriale, che non sia stata preceduta da un motivato avviso di accertamento, deve essere motivata in modo congruo, sufficiente ed intellegibile, tale obbligo derivando dai principi di carattere generale indicati, per ogni provvedimento amministrativo, dalla L. n. 241 del 1990, art. 3, e recepiti, per la materia tributaria, dalla L. n. 212 del 2000, art. 7. (Affermazione relativa ad una cartella esattoriale, emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, nella quale l’Ufficio non si era limitato ad una mera correzione di errori materiali o di calcolo, ma aveva operato il conteggio delle somme da versare, non riconoscendo un credito di imposta”.

Pertanto, quando la cartella di pagamento costituisce il primo atto in cui si estrinseca la pretesa erariale non è sufficiente che l’Agente per la riscossione si limiti a indicare il dettaglio dell’addebito poichè è necessario che la cartella indichi i motivi della pretesa in modo congruo, sufficiente e intellegibile.

Nel caso in cui l’Equitalia si limiti ad indicare la ragione dell’iscrizione a ruolo semplicemente nel “recupero del credito di imposta ex L. n. 289 del 2002, art. 62” la cartella deve essere dichiarata nulla poiché trattasi si un’affermazione “anonima” delle ragioni per le quali l’Amministrazione suppone di vantare un credito, giacché quest’ultimo può emergere sia dalla erronea contabilizzazione di crediti effettivamente spettanti sia dall’esclusione dei presupposti per il riconoscimento della spettanza.

 

Utili pro quota ai soci

Comm. Trib Regionale di Roma – sentenza n°309/29/2013

Nel caso di società a ristretta base societaria, in sede di accertamento di utili non contabilizzati, relativamente alle imposte sui redditi, si ritiene applicabile la presunzione di attribuzione pro quota ai soci, salva la prova contraria, come da prassi consolidata, sulla quale concorda anche la Suprema Corte di Cassazione.

Tutto ciò corrisponde ad uno schema logico-giuridico, corrispondente all’art.38 comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, che fa presumere ragionevolmente che, ove non venga dimostrato che gli utili sono rimasti nel patrimonio della società , essi siano affluiti nella disponibilità dei singoli soci.

Sottoscrizione del ruolo: la mancanza determina l’illegittimità del provvedimento

Riferimenti:

– art. 12, comma 4, del D.P.R. n°602 del 1973;

Commissione Tributaria Regionale Aquila- Sez. dist. di Pescara, sentenza n° 1296/6/2014;

– Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso, sentenza n° 784/3/2015;

– Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone, sentenza n°654/2/2015

Un aspetto di estrema importanza, ampiamente dibattuto tra gli operatori del settore, riguarda la sottoscrizione del ruolo emesso da parte dell’Ente impositore.

Capita spesso, infatti, di ricevere degli atti da Equitalia S.p.a., come ad esempio una cartella di pagamento, un’intimazione, un fermo amministrativo o un’ipoteca, senza tuttavia avere alcuna certezza in merito al fatto che le somme richieste dall’Ente impositore siano state effettivamente iscritte a ruolo nel rispetto della normativa vigente in materia, in particolare per quanto concerne la sottoscrizione del ruolo stesso.

L’art. 12, comma 4, del D.P.R. n°602 del 1973 prescrive che ” il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica dal titolare dell’Ufficio o da un suo delegato. Con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo”. Da ciò ne consegue che il contribuente, in sede di opposizione ad atto notificato dall’Agente per la Riscossione, potrebbe ben eccepire in sede giudiziale la corretta sottoscrizione del ruolo e lasciare che sia poi l’Equitalia S.p.a. a fornire la prova che sia stato sottoscritto dal titolare dell’ufficio o da un suo delegato; in mancanza di ciò il Giudice tributario dovrebbe dichiarare l’illegittimità del provvedimento impugnato.

E’ evidente, inoltre, che il contribuente potrà tirare in ballo, qualora l’ente impositore è l’Agenzia delle Entrate, anche gli effetti della sentenza n. 37/2015 della Corte Costituzionale poiché, in questo caso, non sarebbe sufficiente la sottoscrizione del ruolo da parte del titolare dell’Ufficio ma quest’ultimo dovrà essere in possesso di un legittimo incarico di dirigenza.

Entrambe le questione sono state oggetto di alcune recentissime pronunce da parte della Commissioni di merito che ritengo opportuno citare.

Il primo interessante pronunciamento è quello della Commissione Tributaria Regionale Aquila – Sez. distaccata di Pescara – che con la sentenza n° 1296/6/2014 ha disposto “l’assenza di dimostrazione della corretta sottoscrizione del ruolo e, quindi della relativa esecutorietà non può che comportare la nullità della cartella impugnata se si considera che un recentissimo arresto della Suprema Corte ha cassato la decisione del Giudice di merito in un caso del tutto analogo a quello di specie, dove era stata affermata la regolarità formale del difetto di sottoscrizione sulla base del fatto notorio, statuendo che “Alla stregua di tali principi non rientra nella categoria del fatto notorio la sottoscrizione degli atti impositivi (nella specie di ruolo e la cartella esattoriale relativi ad IVA ed IRPEF), qualora il contribuente eccepisca il difetto di rappresentanza sostanziale, non essendo sufficiente ai fini predetti, la verifica di tali requisiti degli atti, da parte del giudice decidente, in sede di esame di altro ricorso” (Cass. Civ. sez. VI – V ordinanza n. 2808 del 6.2.2013).

La necessità della sottoscrizione del ruolo, quantomeno telematico è stata ribadita anche CTR della Campania con sentenza n. 412 del 25.1.2011 nella parte in cui ha affermato: “Particolare rilevanza assume la sottoscrizione del ruolo da parte del titolare dell’Ufficio o di un delegato in quanto l’art. 12, IV comma del D.P.R. n. 602/73 stabilisce che con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo (…) a riguardo si rileva che la giurisprudenza in più occasioni si è espressa circa l’obbligo a pena di decadenza, della sottoscrizione del ruolo, ed in particolare si citano le sentenze nn. 7093/2003 e 7439/2003 della Sezione V della Corte di Cassazione”.

Recentissimo, poi, è il pronunciamento della Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso, sentenza n° 784/3/2015 che ha ritenuto che tutti gli atti delle Agenzie fiscali aventi rilevanza esterna, e quindi non solo gli avvisi di accertamento, devono essere adottati e firmati dal direttore dell’Agenzia che, in quanto preposto a ufficio di livello dirigenziale, deve essere un dirigente. Se, dunque, in giudizio non è stata fornita la prova che chi ha sottoscritto il ruolo era un legittimo funzionario dell’Agenzia delle Entrate anche la successiva cartella esattoriale deve essere dichiarata illegittima.

Dello stesso avviso è la Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone che con la sentenza n°654/2/2015 ha dichiarato l’illegittima di una cartella di pagamento notificata al contribuente poiché “Nel caso in esame la onerata Equitalia Sud S.p.A. non ha fornito nel processo le relative cartelle dalle quali si potesse evincere chi ha reso esecutivo e in quale data è stato reso esecutivo il ruolo. La cartella, infatti, non è altro che l’atto con cui l’agente della riscossione notifica al debitore il ruolo, formato dall’ente creditore, di modo che un eventuale vizio del ruolo risulta invalidante per la cartella stessa e per tutti gli atti conseguenziali”.

Accertamenti alberghi e ristoranti

Negli ultimi anni si è assistito a un notevole incremento di accertamenti posti in essere dall’Agenzia delle Entrate, volti a ricostruire i ricavi delle attività alberghiere e di ristorazione in base al consumo di acqua minerale, all’utilizzo di tovaglioli o di lenzuola da parte dei clienti. Detto tipo di accertamento tecnicamente viene definito analitico-induttivo e sostanzialmente consiste nel contestare al contribuente dei maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, non solo sulla base di prove dirette (fatture e altri documenti), ma anche, e spesso, sulla base di presunzioni qualificate, ovvero gravi, precise e concordanti.

Orbene, il fondamento normativo da cui trae origine detta attività di accertamento è da individuarsi nell’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973, che dispone: “l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”.

Dunque, se l’attività presuntiva dell’Amministrazione Finanziaria è normativamente prevista dobbiamo tuttavia sincerarci, mediante una breve analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, entro quali limiti è ammesso l’utilizzo, nei casi sopra individuati, dell’accertamento analitico-induttivo.

In materia di ristorazione spesso si prende a riferimento il numero dei tovaglioli lavati ricavando da questi il numero dei pasti realmente consumati dai clienti. Pertanto, se da una verifica risultasse che il numero dei tovaglioli fosse notevolmente maggiore dei pasti consumati dagli avventori, l’Agenzia potrebbe procedere alla contestazione dei presunti maggiori ricavi e recta via alla rideterminazione del reddito d’impresa

E’ bene precisare che detta ricostruzione induttiva dei ricavi deve tenere conto anche di ulteriori utilizzi, come ad esempio i tovaglioli impiegati in cucina, quelli utilizzati dai camerieri e quelli riservati in genere all’autoconsumo.

Difatti, una recente pronuncia della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sentenza n°58/5/2013, ha ritenuto illegittima l’attività accertatrice dell’Ufficio sull’assunto che quest’ultimo“ha considerato 21.200 tovaglioli per i coperti con un abbattimento del 25%. senza considerare il notevole uso dei tovaglioli in cucina come strofinacci e in sala per portare il vino, per coprire i cestini del pane, per i tavoli a buffet, per i tavoli per gli aperitivi, per i tavoli del coffee break, ecc. e per i pasti somministrati ai dipendenti e collaboratori e per l’autoconsumo” e inoltre “non ha considerato la capienza dei locali, i giorni di apertura e i turni di servizio”.

Cosa dire invece dell’accertamento basato sul numero di bottiglie d’acqua consumate dai clienti?

In questo caso la Corte di Cassazione con sentenza n°17408/2010, ha dichiarato la legittimità dell’operato dell’Ufficio poichè la quantità di acqua minerale consumata nell’attività di ristorazione era notevolmente eccedente da quella che può essere consumata dai singoli avventori secondo il numero dei pasti dichiarati dal titolare del ristorante.

Ciò nonostante, la Corte ha voluto comunque precisare che “la flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento proprio nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica.

Ogni sforzo, quindi, va compiuto per individuare la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la situazione concreta (confronto che può essere anche vincente per gli strumenti presuntivi allorchè i dati forniti dal contribuente risultino inattendibili).”

Diversa e più complessa è la questione dell’accertamento c.d. lenzuolometrico, cioè basato sul numero di lenzuola lavate dalla struttura ricettiva.

Con la sentenza n°12/12/2013, la Commissione Tributaria Regionale della Liguria, ha dichiarato l’illegittimità dell’accertamento basato sul numero di lavaggi delle lenzuola poiché “l’accertamento doveva tener in maggior conto quanto rilevabile dalle fatture attive e dalle ricevute fiscali, dalle quali risultava l’utilizzo di camere matrimoniali anche da parte di persone singole, che i bambini al seguito dei genitori non pagavano la tariffa piena e che nel periodo invernale le tariffe applicate erano più basse, rispetto alle tariffe minime indicate nello studio di settore.

Tali elementi hanno determinato una riduzione dei ricavi” inoltre, prosegue la Commissione “sulla bassa redditività dell’esercizio ha inciso anche l’elevato importo del canone di locazione che ammontava a Euro. *** più aggiornamento annuale ISTAT, come rilevabile dal contratto di locazione in atti ed inoltre sono state sostenute spese di ristrutturazione dell’albergo per Euro. ***;

Concludendo, le presunzioni reperite nel corso di attività ispettive per avere una certa attendibilità devono essere adeguate alla natura del soggetto interessato, alla specifica attività svolta e alle sue dimensioni. Va comunque precisato che l’attività di accertamento degli uffici finanziari deve svolgersi nel rispetto delle cautele previste anche dallo Statuto del Contribuente per evitare arbitrii e la violazione dei fondamentali diritti del contribuente.

Delega di firma degli atti tributari

Riferimenti:

– art. 42 del D.P.R. n°600/1973;

– Corte di Cassazione, sentenza n°18758/2014;

– Corte di Cassazione, sentenza n°14942 /2013;

– Commissione Tributaria Provinciale di Enna, sentenza n°1076/3/2014.

Capita spesso che il contribuente si vede notificare dall’Agenzia delle Entrate un avviso di accertamento sottoscritto dal “Capo Team” o dal “Capo Area” su delega del Direttore Provinciale.

Nulla di strano. Difatti, ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n°600/1973, gli accertamenti in rettifica e d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato alla carriera direttiva da lui delegato. Detta norma, inoltre, prevede che “L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione” .

In sostanza, dal quadro normativo suindicato, si può affermare che l’avviso di accertamento, a pena di nullità, dev’essere sottoscritto dal Direttore Provinciale responsabile della Direzione Provinciale che ha emesso l’atto. Questi, tuttavia, ha facoltà di delegare la sottoscrizione ad altro impiegato alla carriera direttiva.

Ebbene, cosa accade se in sede giudiziale il ricorrente, in presenza di un atto sottoscritto dal Capo Team o Capo Area, eccepisca di non essere in grado di verificare se effettivamente il Direttore Provinciale abbia conferito loro valida delega e se quest’ultimi siano realmente impiegati alla carriera direttiva così come prescritto, a pena di nullità, dalla vigente normativa in materia?

La risposta ci è offerta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n°14942 del 14 giugno 2013: “in caso di contestazione, incombe all’Agenzia delle Entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza di eventuale delega, trattandosi di un documento, se esistente, già in possesso dell’amministrazione finanziaria, mentre la distribuzione dell’onere della prova non può subire eccezioni.

Pertanto, non è consentito al giudice tributario attivare d’ufficio poteri istruttori, in ragione del fatto che non sussiste l’impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell’altra, mentre le parti possono sempre produrre, anche in appello, nuovi documenti nel rispetto del contraddittorio”

A tale, oramai, consolidato orientamento ha dato ulteriore continuità la sentenza n°18758/2014, sempre della Suprema Corte, ribadendo che, “L’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.

Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio, poichè il solo possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio”

Infine, sul punto, merita di essere citata la recente pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Enna (sent. n°1076/3/2014) che ha annullato un avviso di accertamento emesso dal Fisco sull’assunto che l’Agenzia delle Entrate in sede contenziosa, in presenza di specifica eccezione di parte, non ha prodotto la delega conferita al Capo Team con attestazione del valore della controversia entro i cui limiti tale delega poteva essere esercitata e con indicazione dei funzionari delegati aventi la necessaria qualifica.

Avv. Alessandro Sgrò

Imposta di soggiorno

Nessuna sanzione amministrativa potrà essere

 comminata al gestore della struttura ricettiva se l’ospite non intende versare l’imposta di soggiorno.

Con sentenza n. 653/2012, il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, pur riconoscendo la legittimità dell’imposta di soggiorno introdotta dal Comune di Padova volta a finanziare gli interventi in materia di turismo nonché per la manutenzione dei beni comunali, ha dichiarato l’illegittimità del Regolamento nella parte in cui è prevista la responsabilità amministrativa del gestore della struttura ricettiva in caso di mancato pagamento dell’imposta da parte dell’ospite.

In sostanza il TAR del Veneto ritiene, correttamente, che il gestore della struttura ricettiva non può essere considerato dal Comune come soggetto passivo né tatomeno come sostituto d’imposta e, dunque, nel caso di mancato pagamento potrà essere sanzionato amministrativamente solo ed esclusivamente l’ospite “evasore”.  Difatti il gestore non riscuote il tributo per un interesse proprio, connesso a un possibile guadagno ricavabile dall`attività di riscossione,  ma opera soltanto come titolare della struttura senza poterne ricavare un beneficio economico. Dunque il regolamento sull’imposta di soggiorno deve essere interpretato nel senso che la sanzione per omesso versamento dell`imposta colpisce il “vero” soggetto passivo, cioè chi pernotta nell`albergo e non invece chi lo gestisce.

Per quanto invece riguarda gli ospiti che alloggiano in strutture ricettive per motivi di lavoro il Tribunale ha valutato legittima l’imposizione sull’assunto che il gettito “è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali”, pertanto ne consegue, sempre a giudizio del Tribunale, che anche coloro che soggiornano in strutture ricettive per motivi di lavoro usufruiscono dei vantaggi connessi agli interventi finanziati con l’imposta “in quanto tali interventi non hanno ad oggetto il turismo in senso stretto, ma più in generale la fruizione della città.”

Da quanto sopra, riteniamo, che le conclusioni a cui è giunto il TAR Veneto, anche sulla scia di alcune precedenti pronunce da parte dei tribunali amministrativi regionali, si possano estendere a tutti i Comuni ove è stata introdotta l’imposta di soggiorno. In particolare possiamo concludere che nessuna responsabilità può essere attribuita al gestore della struttura ricettiva in caso di mancato pagamento dell’imposta da parte dell’ospite, difatti gli importi eventualmente dovuti ma non corrisposti dai fruitori dei servizi ricettivi dovranno essere recuperati dal Comune nei confronti dei soggetti passivi sulla base delle dichiarazioni che i gestori della struttura ricettiva trasmetteranno nei modi e nelle forme previste da ogni singolo regolamento comunale.

Riferimenti giurisprudenziali:

T.A.R. Toscana,  sentenza n. 1808/2011;

T.A.R. Veneto, sentenza n. 653/2012;

T.A.R. Puglia, sentenza n. 748/2012.

Tariffa sui rifiuti degli alberghi

Riferimenti:

art. 68 del D.Lgs. n°507 del 1993;

art. 69 del D.Lgs. n°507 del 1993;

Comm. Trib. Prov. di Lecce, sent. nn°329/2/2013, 331/2/2013, 336/2/2013, 353/2/2013;

Comm. Trib. Reg. per la Puglia – sez. Staccata di Lecce, sent. n°170/22/2014.

Per comprendere meglio la disputa che vede impegnati molti gestori di attività ricettive avverso le  amministrazioni locali che, in contrasto alla normativa statale ed europea, applicano alle strutture ricettive delle tariffe che non tengono per nulla conto della reale capacità produttiva di rifiuti delle camere destinate all’ospitalità ricettiva, dobbiamo necessariamente partire dal dato normativo per poi soffermarci sulla recente giurisprudenza e, infine, trarne le debite considerazioni.

 Orbene, l’art. 68 del D.Lgs. n°507 del 1993 stabilisce che i Comuni, per l’applicazione della tariffa rifiuti, devono adottare apposito regolamento contenente la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie di locali e aree con omogenee potenzialità di rifiuti tassabili con la stessa misura tariffaria. Con il comma 2 del suddetto articolo, il legislatore ha voluto intendere che l’articolazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie è effettuata, ai fini della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto di alcuni gruppi di attività o di utilizzazione, specificando alla lettera c, che sono compresi in una unica categoria i locali e aree ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri.

L’art. 69 del citato D.Lgs. n°507 del 1993 dispone, inoltre, che i Comuni devono deliberare in base alla classificazione e ai criteri di graduatorie contenuti nel regolamento, le tariffe per unità di superficie dei locali ed aree compresi nelle singole categorie o sottocategorie da applicarsi nell’anno successivo. La deliberazione, deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonché i dati e le circostanze che ne hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo.

Dal quadro normativo di cui sopra emerge con solare evidenza che i singoli Comuni nel regolamento applicativo della tariffa rifiuti devono obbligatoriamente indicare le ragioni di fatto e l’iter logico giuridico che li ha indotti a individuare delle tariffe differenti per le aree con omogenea potenzialità di produrre rifiuti. Ciò però, lo sappiamo bene, viene solitamente disatteso dalle amministrazioni locali che in sede regolamentare omettono di indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe e i dati relativi ai costi del servizio.

Proprio in virtù di detta condotta omissiva che la Commissione Tributaria Provinciale di Lecce con le  sentenze nn° 329/2/2013, 331/2/2013, 336/2/2013, 353/2/2013 ha dichiarato l’illegittimità della tariffa rifiuti applicata agli alberghi e campeggi  ritenendo irragionevole “che un nucleo familiare in vacanza produca maggiori rifiuti di quelli prodotti ordinariamente nella propria abitazione, a differenza delle altre superfici aperte al pubblico alle quali hanno libero accesso numerose persone e quindi hanno una potenzialità di creare maggiori rifiuti”.

La Commissione, prosegue richiamando alcune importanti pronunce della stessa Commissione Provinciale di Lecce (sentenze nn°612 – 614/09/08 del 18.11.2008, 629/02/10 del 03.11.2010, 294 – 295 /02/11 del 10.5.2011; 536/02/11 del 12.07.2011), in cui i giudici hanno ritenuto nel caso di attività alberghiere e/o altre strutture ricettive, sussistere al loro interno aree aventi una diversa potenzialità produttiva di rifiuti: maggiore per le aree destinate a ristorazione, sale da ballo e superfici comuni aperte al pubblico, minore per le aree destinate alle unità abitative.

Tale orientamento  è stato di recente confermato anche dalla Commissione Tributaria Regionale per la Puglia – sez. Staccata di Lecce – con le sentenze nn° 71, 72 e 73 del 04.06.2012 e dalla più recente sentenza n°170/22/2014.

Detto ultimo profilo, analizzato con attenzione dalle Commissioni di merito, sembra invece sia stato totalmente trascurato da alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione (si veda la sentenza n°12859/2012) e, in ultimo ,dal TAR della Toscana (sentenza n° 627/2014), che  rifugiandosi sul dato della “comune esperienza” ritengono la legittimità di una tassazione più elevata per le attività ricettive a causa della maggiore produttività di rifiuti di un albergo rispetto a una civile abitazione.

Difatti, dette pronunce hanno un unico comune denominatore: non fanno alcuna distinzione ai fini della tariffa rifiuti, tra esercizi con servizio di ristorazione e quelli privi di tale servizio e non si pongono neppure il problema di una reale distinzione delle aree utilizzate per il solo pernottamento da quelle, invece, riservate alla consumazione dei pasti.

 In altri termini, se può considerarsi giustificato (ma non lo è, come diremo in seguito) un regime di tassazione più elevato per le attività ricettive con servizio di ristorazione, in considerazione del fatto che l’esercizio di un’attività di questo tipo, che può essere svolta anche a persone che non pernottano può determinare una produzione quantitativamente e qualitativamente significativa di rifiuti, altrettanto non può dirsi per tutte le attività prive del servizio di ristorazione.

Non si comprende, infatti, perché un albergo che non eroga servizi di ristorazione e che, quindi, manifesta una capacità di produrre rifiuti pari o, addirittura, inferiore a quella delle abitazioni private (assenza di rifiuti organici), debba essere assoggettato a un regime di tassazione di gran lunga più elevato (a volte più del triplo!) rispetto a quello previsto per le abitazioni private.

Ma vi è di più: nelle strutture ricettive (alberghiere ed extralberghiere) che garantiscono anche un servizio di ristorazione è ragionevole che la tariffa rifiuti debba essere applicata differenziando le aree che per loro natura sono suscettibili di produrre rifiuti in misura pari a quelle delle civili abitazioni (camere, corridoi, disimpegni, ripostigli, balconi e terrazze ecc.), applicando per queste aree la tariffa più mite prevista per le abitazioni, dalle aree invece destinate a produrre maggiori rifiuti (ristorante, bar, sala colazione, cucina ecc.).

E’, dunque proprio sulla diversificazione delle aree a seconda della loro destinazione che si pone il problema circa la legittimità della tariffa concretamente applicata.

La notifica alla coinquilina non è valida

 

Con l’ordinanza n°2705/2014, la Corte di Cassazione, sulla scia di un orientamento ormai consolidato,  ha ribadito che la consegna di  un avviso di accertamento a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da un rapporto di parentela o non sia addetta alla casa non è assistita dalla presunzione di consegna e, dunque, non realizza la fattispecie notificatoria, con la conseguente nullità della notifica (su tutte Cass. n. 13625 del 2004).

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte risultava che la notifica dell’atto precedente alla cartella di pagamento era stata effettuata dall’Agenzia delle Entrate a “persona che vive in casa” senza, tuttavia, avvisare l’effettivo destinatario con lettera raccomandata di detta avvenuta consegna a mani della coinquilina, come prescritto dall’art. 139 c.p.c.. A nulla è valso sostenere da parte dell’Agenzia che la coinquilina, a cui era stato consegnato l’atto prodromico, dev’essere considerata a tutti gli effetti di legge quale “persona addetta alla casa”.

Irap per professionisti: ultime novità dalla cassazione

Riferimenti:

Cass. ordinanza n° 2520/2014 del 5/2/2014.

Cass. ordinanza n°7153/2014 del 26/3/2014.

Cassazione sentenza n°22020/2013

In un recente articolo abbiamo dato conto della sentenza n°50/3/2014, emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone che ha accolto le doglianze di un medico di base, riconoscendo a quest’ultimo il diritto di vedersi rimborsate le somme ingiustamente versate a titolo di IRAP poiché esercitava la propria attività in forma non organizzata.

Ebbene, facendo ora particolare riferimento ai professionisti che si avvalgono del contributo di praticanti  e/o di segretarie, segnaliamo due recentissime ordinanze della Corte di Cassazione che, seppur stringatamente, giungono all’importante conclusione che sia del tutto insufficiente, al fine dell’autonoma organizzazione, la presenza all’interno di uno studio legale di soli praticanti e, non certo, può considerarsi valore decisivo la presenza a studio di una segretaria.

Estratto dell’ordinanza n°2520/2014 del 5/2/2014.

“Il ricorso – a giudizio del relatore – deve essere accolto in quanto la sentenza impugnata si limita ad affermare apoditticamente “la presenza di una forte componente organizzativa”, senza tener conto delle specifiche deduzioni di parte contribuente, che aveva ad esempio posto in luce come non si avvalesse di personale dipendente e nel suo studio operassero solo dei praticanti. Il Collegio ha condiviso la proposta del relatore”.

Estratto dell’ordinanza n°7153/2014 del 26/3/2014.

“la Agenzia non contesta adeguatamente la valutazione in fatto del giudice di secondo grado, limitandosi a sottolineare la quantità di spese affrontate dal professionista; fattore di per sè non decisivo se considerato nel suo importo globale, in quanto – ad esempio – le spese per trasferte o per i compensi ai domiciliatari non sono significative ai fini della sussistenza di una autonoma organizzazione. Nè assume valore decisivo la presenza di una segretaria, così come ribadito anche di recente da questa Corte.

Il Collegio ha condiviso la proposta del relatore in quanto le modeste spese per personale dipendente non sono sufficienti a determinare, come invece ritiene la sentenza impugnata, l’automatica soggezione del contribuente ad IRAP (sentenza 22020/2013 di questa Corte)”.

Cassazione sentenza n°22020/2013.

“l’automatica sottopozione ad IRAP del lavoratore autonomo che disponga di un dipendente, qualsiasi sia la natura del rapporto e qualsiasi siano le mansioni esercitate vanificherebbe l’affermazione di principio desunta dalla lettera della legge e dal testo costituzionale secondo cui il giudice deve accertare in concreto se la struttura organizzativa costituisca un elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito, tale da escludere che l’IRAP divenga una (probabilmente incostituzionale) “tassa sui redditi di lavoro autonomo”.

Vi sono, a giudizio del Collegio, ipotesi in cui la disponibilità di un dipendente (magari part time o con funzioni meramente esecutive) non accresce la capacità produttiva del professionista, non costituisce un fattore “impersonale ed aggiuntivo” alla produttività del contribuente, ma costituisce semplicemente una comodità per lui (e per i suoi clienti)”.

In sostanza, dalle pronunce di cui abbiamo dato conto, si evince che ci si può sottrarre dal versamento Irap o chiedere il rimborso tutte le volte che non sia configurabile un’organizzazione che possa funzionare indipendentemente dall’intervento del professionista.  

Elemento importante, che verrà preso in considerazione in sede giudiziaria, è senza dubbio la dichiarazioni dei redditi dell’interessato, in particolare le voci riportate nel quadro “Re”, quali ad esempio le quote di ammortamento dei beni strumentali, le spese relative agli immobili, le spese per prestazione di lavoro dipendente, per collaborazioni e compensi erogati a terzi e le spese relative agli interessi passivi.

Accertamento catastale: ecco cosa fare

Ti è stato notificato un avviso di accertamento catastale?

 Lo studio legale e tributario Sgrò, in collaborazione con alcuni studi tecnici, stante i numerosi avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate ai proprietari di immobili di Roma, ha già proposto alcuni ricorsi in Commissione Tributaria Provinciale, ritenendo illegittima la procedura seguita dall’Agenzia delle Entrate – ufficio Provinciale del Territorio- volta a determinare la nuova classe e rendita catastale.

Ricordiamo che il nuovo classamento e rendita, se non opposti entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso di accertamento, rilevano:

– ai fini dell’imposta delle SUCCESSIONI e DONAZIONI;

– ai fini IRPEF;

– ai fini IMU;

– ai fini TARSU

Chiedi un parere inviando una mail all’indirizzo info@studiolegalesgro.com, allegando  l’avviso di accertamento notificato, ovvero chiama per un appuntamento al numero 06.68891896.

Tariffa sui rifiuti degli stabilimenti balneari

L’obbligatorietà della Tariffa Rifiuti per gli stabilimenti balneari

È innegabile che la questione relativa all’applicazione della Tariffa Rifiuti agli stabilimenti balneari abbia generato un ampio dibattito giuridico. Tuttavia, è ormai ben stabilito sia nella giurisprudenza di merito che nella giurisprudenza di legittimità che anche l’area scoperta destinata all’arenile di uno stabilimento balneare debba essere sottoposta alla Tariffa Rifiuti.

L’arenile come attrattiva principale

L’arenile rappresenta indubbiamente la principale attrattiva di uno stabilimento balneare. È lì che i visitatori trascorrono la quasi totalità della loro giornata, talvolta persino l’intera giornata. Questa affluenza costante di persone contribuisce in modo significativo alla produzione di rifiuti. In effetti, è proprio la presenza di un elevato numero di visitatori, come affermato dalla Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Cagliari nella sentenza n. 29/1/2021, che legittima il Comune, in veste di gestore del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a richiedere il pagamento della T.A.R.I., considerando l’arenile come una superficie utile per calcolare l’importo dovuto a titolo di questa tassa.

Il principio della Tariffa Rifiuti

Il principio dell’applicazione della Tariffa Rifiuti è stato ancor prima affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 31460/2019. Secondo i giudici di legittimità, la Tariffa Rifiuti è dovuta in virtù dell’art. 62 del D.lgs. n. 507 del 1993 per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte, a prescindere dal loro uso specifico, con l’eccezione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie ad abitazioni. Inoltre, l’obbligo si applica anche ai locali e alle aree che, per la loro natura o per il particolare uso a cui sono destinati, generano rifiuti in modo stabile.

La determinazione dell’importo

La questione dell’importo dovuto per la Tariffa Rifiuti per gli stabilimenti balneari solleva alcune questioni importanti. Tuttavia, secondo il parere dei giudici di legittimità, l’art. 66 del  cit. D.lgs. prevede alcune riduzioni dell’imposizione per situazioni che obiettivamente comportano una minore utilizzazione del servizio. Questo è il caso, ad esempio, quando l’utilizzo dello stabilimento è stagionale o non continuativo. In queste circostanze, viene applicata una riduzione percentuale della tariffa, il cui ammontare è stabilito in base alla licenza rilasciata dagli organi competenti per l’esercizio dell’attività. Si tratta di un sistema che regola in modo specifico queste situazioni e impone al contribuente l’onere di dichiarare e dimostrare le circostanze fattuali rilevanti per la determinazione dell’importo esatto della tassa.

In conclusione, l’applicazione della Tariffa Rifiuti agli stabilimenti balneari è un argomento che è stato ampiamente dibattuto e risolto in modo chiaro dalla giurisprudenza, tenendo conto delle caratteristiche uniche di questi luoghi e delle relative produzioni di rifiuti. La legge offre anche opportunità per ridurre l’onere fiscale in base alle circostanze specifiche di ciascuno stabilimento.

Esenzione ici delle case per le ferie

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Riferimenti:

Art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 504 del 1992;

Commissione Tributaria Regionale di Roma, sentenza n°1267/4/2014;

Commissione Tributaria Regionale di Roma, sentenza n°287/22/2010.

Ha diritto all’esenzione ICI di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 504 del 1992, l’ente ecclesiastico che adibisce un proprio immobile in parte a sede della comunità religiosa e in parte a casa per ferie con ospitalità rivolta a studenti fuori sede. Questa è la conclusione a cui è giunta recentemente la Commissione Tributaria Regionale del Lazio con la sentenza n° 1267/4/2014.

In particolare, la Commissione Tributaria d’appello, confermando la pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità di alcuni avvisi di accertamento ICI notificati a un ente ecclesiastico poiché quest’ultimo aveva dimostrato in sede giudiziaria che la casa per ferie, gestita dall’ente nell’immobile oggetto di accertamento, non era rivolta a un pubblico indeterminato ma solo ed esclusivamente per l’accoglienza di studenti universitari lontani dalle proprie residenze e per la sola durata dell’attività didattica, con conseguente esclusione del periodo estivo. In tal caso, sempre secondo i giudici tributari, può legittimamente ritenersi che l’opera d’accoglienza, gestita al di fuori dei normali canali commerciali, risponda precipuamente a finalità sociali e religiose.

Oltre la tipologia di utenti, l’adita Commissione prendeva in considerazione la retta giornaliera applicata agli studenti da parte dell’ente. Quest’ultima, difatti, dalle risultanze processuali risultava notevolmente inferiore ai comuni prezzi del mercato alberghiero, per cui si poteva dedurne l’assenza di un interesse speculativo. La mancanza di un lucro soggettivo emergeva, inoltre, dalla dichiarazione dei redditi prodotta in giudizio dall’ente ecclesiastico che permetteva ai giudici di giungere alla seguente conclusione: “Se è vero che i ricavi conseguiti nelle quattro annualità sono di una certa entità, come rilevato dal Comune di Roma, va peraltro considerato che i redditi effettivamente conseguiti (vedi i quadri RG prodotti dall’appellata) sono veramente modesti”.

Sul punto, occorre precisare, che i comuni spesso nel contestare l’assenza dello scopo di lucro, eccepiscono l’entità del volume d’affari prodotto dall’ente ecclesiastico negli anni oggetto di accertamento, che in molteplici casi risulta positivo, tanto da far ritenere che l’attività sia esercitata al fine di trarne dei profitti.

In verità, sebbene l’eccezione della P.A. appaia suggestiva, da un più attento esame della documentazione fiscale prodotta in giudizio potrebbe emergere una realtà totalmente differente: spesso accanto a un volume d’affari positivo si rinviene una notevole perdita economica che deve senz’altro essere esaminata dalla Commissione Tributaria. Al riguardo, anche se in materia tanto altro si potrebbe aggiungere, interessante è la sentenza n°287/22/2010, sempre  della Commissione Tributaria Regionale di Roma che riconoscendo l’esenzione di cui all’art.7, comma lett. i) del D.Lgs n°504/1992, ha voluto precisare che “ il volume di affari cui fa riferimento la difesa del Comune di Roma, riguarda l’intera attività esercitata dalla Co. Per quanto concerne il volume di affari della “Casa per ferie al (…)”, lo stesso si riduce ad Euro 262.647,28 e nell’anno in contestazione, l’esercizio chiuso al 31.12.2001 ha evidenziato un risultato negativo pari ad Euro 70.014,42 (v. doc. 3 produzioni)”.   

Nullità dell’avviso di accertamento catastale

Difetto di motivazione dell’accertamento catastale.

Ricevere una notifica di un avviso di accertamento catastale da parte dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio del Territorio, è un evento che richiede la massima attenzione e cautela. Le modifiche alla classe e alla rendita catastale possono avere un impatto notevole sui nostri beni immobili, influenzando direttamente la tassazione, in particolare l’IMU. Pertanto, è essenziale comprendere come difendersi quando ci troviamo di fronte a un avviso di accertamento catastale.

L’importanza della difesa

È fondamentale riconoscere che questi atti possono contenere difetti che potrebbero portare alla loro stessa annullamento. Per affrontare questa situazione, è necessario presentare un ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento, poiché solo i giudici tributari possono identificare eventuali vizi di invalidità.

Il difetto di motivazione come vizio comune

Uno dei vizi più comuni che si possono trovare negli avvisi di accertamento catastale è il difetto di motivazione. La Corte di Cassazione ha sottolineato più volte che un avviso di accertamento deve esplicitare chiaramente le ragioni che hanno portato l’Amministrazione a modificare la classificazione originale di un immobile. Non è sufficiente fare riferimento a presupposti normativi astratti che hanno giustificato l’avvio della procedura di riclassamento.

In altre parole, l’Ufficio del Territorio è obbligato a fornire dettagli sulle circostanze di fatto e le basi giuridiche che hanno portato al riclassamento. Questo obbligo va oltre la semplice citazione di norme giuridiche; deve informare il contribuente sulle modalità di determinazione dei valori medi, la metodologia utilizzata e la validità dei sistemi di rilevazione.

L’importanza dell’analisi dettagliata

Inoltre, la modifica della classe e della rendita catastale deve tener conto delle caratteristiche edilizie dell’edificio, della sua posizione all’interno dell’ambiente urbano e della qualità ambientale circostante. Non è sufficiente affidarsi esclusivamente a strumenti come Google Street View o Google Earth senza un’analisi approfondita delle caratteristiche intrinseche dell’unità immobiliare.

Conclusioni

In conclusione, quando ci troviamo di fronte a un avviso di accertamento catastale, è essenziale agire in modo tempestivo e informato. La presentazione di un ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria è un passo fondamentale per la difesa dei nostri interessi, soprattutto quando si riscontrano vizi come il difetto di motivazione. La comprensione delle basi giuridiche e delle specifiche circostanze del proprio immobile è essenziale per garantire una difesa efficace e la tutela dei propri diritti fiscali.

Se hai dubbi in merito alla rideterminazione della classe e della rendita

DIFENDI IL TUO IMMOBILE

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L’avvocato Gianluca Melillo ha presentato un ricorso in opposizione, sostenendo che l’avviso di accertamento era illegittimo a causa della mancanza di una valutazione e di una verifica esterna adeguata.

Infatti, l’Agenzia delle Entrate aveva effettuato delle valutazioni senza effettuare un sopralluogo, giustificando questa decisione con la direttiva n. 1/2020 prot. 96451/20 (misure di contenimento della diffusione del coronavirus e tutela della salute dei lavoratori), che ha portato alla sospensione delle verifiche esterne.

La classificazione è stata quindi effettuata utilizzando mezzi di accertamento informatici, tra cui applicazioni come “Google Maps, Street View, Google Earth”, senza un’analisi effettiva delle caratteristiche intrinseche dell’unità immobiliare e senza le dovute indagini.

La difesa del contribuente ha ritenuto inadeguato anche l’uso delle “metodologie comparative”, in quanto l’Ufficio ha ritenuto che l’unità immobiliare fosse tipicamente destinata a un’attività commerciale, basandosi su altre unità simili nella zona. Tuttavia, la presenza di negozi adiacenti non implica necessariamente che l’unità in questione non possa essere legittimamente utilizzata come box auto, e viceversa.

Inoltre, si tratta di negozi attigui con un pubblico limitato, alcuni dei quali vuoti e non utilizzati per alcuna attività commerciale. Questo dimostra che il cliente ha acquistato l’immobile per motivi personali legati alla difficoltà di parcheggio nel centro storico di Pozzuoli, al fine di utilizzarlo come box auto per la sua abitazione.

La comparazione potrebbe essere un elemento presuntivo ma non vincolante per la destinazione di un immobile che ha tutte le caratteristiche per svolgere la funzione di autorimessa. Un semplice sopralluogo avrebbe permesso di confermare questa destinazione (ad esempio, parcheggio di veicoli familiari).

È importante notare che, per un immobile soggetto a dichiarazione DOCFA, se l’Agenzia del Territorio modifica la classificazione e la rendita catastale senza effettuare un sopralluogo e senza una motivazione esaustiva, tale accertamento è nullo (come stabilito dalla CTR Lazio sent. n. 9384/2018).

In ogni caso, l’avviso di accertamento basato sul metodo comparativo è nullo per mancanza di motivazione se non fornisce ulteriori dettagli sugli immobili di confronto, oltre alla loro ubicazione e categoria (come stabilito dalla CTP Venezia sent. 110/2019).

Inoltre, l’Agenzia delle Entrate non ha considerato la possibilità legittima che l’unità possa essere utilizzata come box auto (categoria C/6). L’immobile ha infatti tutte le caratteristiche necessarie per essere considerato un box auto, indipendentemente dalla presenza di unità simili nella zona in termini di struttura, destinazione e condizioni.

L’istante ha fornito documentazione fotografica e una relazione tecnica a supporto delle sue affermazioni, ma bastava un’ispezione dell’interno dell’unità “accertata” per confermare che essa era utilizzata come garage per i veicoli del contribuente.

Alla luce di queste motivazioni di reclamo, durante la fase di mediazione, l’Agenzia delle Entrate ha preso atto delle argomentazioni e ha accettato integralmente il reclamo, ripristinando la classificazione dell’immobile come box auto, con evidenti vantaggi per il contribuente.

ISTANZA DI RIESAME IN AUTOTUTELA PER RIDETERMINARE LA CLASSE E LA RENDITA CATASTALE DELL’IMMOBILE.

Hai un immobile la cui categoria catastale non ti sembra più adeguata allo stato attuale?

Hai una classe e una rendita catastale che ritieni eccessiva rispetto alle caratteristiche del tuo immobile e del contesto urbano in cui è inserito?

In tutti questi casi la soluzione è quella di

Pignoramento dello stipendio da parte di equitalia

 

Strumento ormai frequentemente utilizzato dall’Agente della riscossione è il c.d. pignoramento presso terzi. In particolare in quest’ultimo periodo, lo studio ha avuto modo di affrontare alcuni casi relativi al pignoramento degli stipendi da parte di Equitalia. Al fine di fare, per quanto possibile, chiarezza sul punto, poiché molti erroneamente sostengono l’impignorabilità degli stipendi in virtù delle disposizioni speciali recate nel D.P.R. 602/1973, verrà tracciato nel presente contributo un quadro sintetico della disciplina.

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L’estratto di ruolo è opponibile?

equitalia

Sebbene la Corte di Cassazione con la recentissima pronuncia n°6906/2013, abbia escluso l’impugnabilità degli estratti di ruolo rilasciati da Equitalia, poiché considerati atti interni dell’amministrazione, in questi ultimi mesi si è assistito ad alcune pronunce da parte delle Commissioni Tributarie Provinciali che sembrano non aderire al nuovo indirizzo dei giudici di legittimità.

In particolare, segnaliamo una pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone (sentenza n° 62/5/2014) che aderisce al precedente indirizzo della Suprema Corte espresso con la sentenza n°724/2010, secondo cui “l’impugnazione è ammissibile non solo nei confronti della cartella ma anche contro l’estratto di ruolo che altro non è che una riproduzione di una parte del ruolo”.

In sostanza, la Commissione Tributaria provinciale di Frosinone, richiamando espressamente il precedente orientamento della Cassazione, ha ritenuto legittima l’impugnazione avverso la semplice stampa dell’estratto di ruolo ricevuta in copia presso gli sportelli dell’Equitalia tutte le volte in cui il contribuente lamenti la mancata notifica della cartella di pagamento e la conseguente intervenuta prescrizione del tributo.

Nel caso esaminato dalla Commissione un contribuente si era recapitato presso uno dei tanti sportelli di Equitalia per verificare la propria posizione debitoria apprendendo solo in tale circostanza che l’ente impositore aveva provveduto a iscrivere a ruolo alcuni tributi. Ritenendo di non aver mai ricevuto nessuna delle cartelle di pagamento riportate nell’estratto di ruolo adiva il giudice tributario per chiedere l’annullamento dell’iscrizione a ruolo.

La Commissione, verificata l’impugnabilità dell’estratto di ruolo e il mancato deposito di atti interruttivi della prescrizione, pronunciava la nullità dell’iscrizione a ruolo dando ragione al contribuente.

Da detta pronuncia, in attesa di verificare quale sarà l’effettivo orientamento delle altre Commissioni di merito, si evince che il contribuente può contestare l’iscrizione a ruolo impugnando l’estratto fornitogli allo sportello dell’Equitalia, facendo rilevare la nullità o l’inesistente notifica della cartella di pagamento presupposta e di conseguenza l’intervenuta prescrizione del presento debito tributario, senza dover attendere, con evidente pregiudizio, un atto esecutivo da parte dell’agente della riscossione (pignoramento, ipoteca).

Si consiglia pertanto di verificare presso l’agente della riscossione la propria posizione.

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Studio legale Sgrò
Finalista della 50° edizione
dei 'Le fonti Legal Awards"
  •  Migliore Team Legale dell’anno

  • Miglior Boutique legale d’Eccellenza dell’anno
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Cosa dicono di noi alcuni nostri clienti
  • Simona

    dipendente studio notarile


    Non sapevo proprio come fare: avevo una montagna di cartelle esattoriali per multe con il motorino. Per fortuna abbiamo verificato ogni cartella e ci siamo accorti che c’erano molti errori…abbiamo ridotto di tanto il debito e ora sono molto più tranquilla.

    Grazie avvocato!

  • Leonardo

    proprietario immobiliare

    Ero proprietario di un immobile con mio fratello che però aveva la sua quota ipotecata da Equitalia. Grazie allo Studio Legale Sgrò siamo riusciti a venderlo in una settimana.

    Che dire? Ottimo lavoro.

  • Sara

    imprenditrice

    Che strazio…l’Agenzia delle Entrate mi aveva alzato la classe e la rendita catastale del mio locale. Avrei dovuto pagare un sacco di tasse in più. Lo Studio Legale Sgrò con la collaborazione di uno Studio Tecnico hanno vinto la causa.

    Ora la rendita è quella di prima. Grazieeee.

  • Alessia

    imprenditrice

    Facendo un controllo presso Equitalia mi sono trovata dei debiti con il Fisco di cui non ne sapevo nulla.

    Grazie allo Studio Sgrò ho scoperto che molte somme non erano dovute!

  • Pietro

    professionista

    Ho rottamato molte cartelle ma dopo un esame più approfondito mi sono accorto che alcune erano già prescritte e altre notificate in modo non corretto.

    Ho fatto ricorso con lo studio Sgrò

    Come lo studio legale Sgrò può aiutarvi in caso di problemi tributari.

    Lo Studio Legale Sgrò è specializzato nel contenzioso tributario, cartelle di pagamento e ipoteche dell’Agenzia delle Entrate.

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