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Autore: Alessandro Sgrò

La nullità della cartella notificata a ex socio

La responsabilità dell’ex socio di una società per i debiti fiscali di quest’ultima è un argomento delicato e che coinvolge molte persone. Spesso, infatti, gli ex soci di una società, magari estinta, si vedono recapitare al proprio indirizzo di residenza un’intimazione di pagamento o un atto della riscossione da parte dell’Agenzia delle Entrate Riscossione per il recupero di somme inerenti a debiti della società di cui erano soci.

In molti casi la richiesta è nulla.

Il punto in diritto è il seguente: affinché l’ex socio possa ritenersi solidalmente obbligato con la società e, dunque, rispondere dei debiti fiscali di quest’ultima è necessario che l’atto da cui trae origine la pretesa impositiva (ad. esempio la cartella di pagamento) sia stato correttamente notificato alla società di cui egli era socio.  Infatti, solo una volta notificata la cartella di pagamento alla società, l’ex socio si considera obbligato solidalmente; in caso contrario, l’Agenzia non potrà agire nei suoi confronti per il recupero delle somme presumibilmente inevase.

Ebbene, in una causa recentemente patrocinata dall’Avv. Alessandro Sgrò, la Corte di Giustizia Tributaria di Torino ha annullato molteplici cartelle sottese all’intimazione impugnata affermando che: “Il debito tributario Iva della società è debito dei soci – illimitatamente responsabili previa escussione del patrimonio societario – solo dopo la notifica dell’atto di recupero del tributo alla società (SS. UU. sentenza n. 16412/2007, SS.UU. sentenza n. 19704/2015 e Sez. Tributaria sentenza n. 9762/2014), come peraltro affermato dall’Ufficio. L’Agenzia delle Entrate – Riscossione non ha tuttavia fornito alcuna prova della avvenuta notifica del ruolo e delle cartelle di pagamento alla società o agli ex soci, impersonalmente e collettivamente, presso l’ultima sede della società cancellata”.  (CGT di I Grado di Torino, sent. n. 926/2022).

In definitiva, la Corte di Giustizia Tributaria, conformandosi ai principi espressi dalla Corte di Cassazione (consigliamo di consultare l’ultima pronuncia in materia: Cass. sent. 6997/2020), ha disposto che una cartella può manifestare effetti all’ex socio di una società estinta solo se consegnata alternativamente:

– o alla società, anche se successivamente dichiarata estinta;

–  oppure al legale rappresentante (specificando nella relata di notifica “in qualità di legale rappresentante o liquidatore della società);

– oppure direttamente ai singoli soci.

Quindi, prima di versare le somme, o aderire a eventuali definizioni agevolate, controllate sempre che le notifiche siano state effettuate in modo corretto!

  

Rottamazione quater (2023)? Ecco cosa fare…

Quali debiti ricadono nella nuova rottamazione quater?

Con l’entrata in vigore della legge di bilancio per l’anno 2023, il legislatore ha previsto la possibilità di rottamare i debiti fiscali affidati all’Agente della Riscossione dal 1° gennaio 2000 a l 2022;

Se aderisco cosa devo pagare?

Solo l’imposta, sono escluse le sanzioni e interessi. Per le multe stradali la definizione si applica ai soli interessi, quindi la multa deve essere pagata anche se tecnicamente è una sanzione.

Entro quando aderire? E in quante rate si paga il debito rottamato?

Il termine ultimo per presentare l’istanza è il 30 aprile 2023. Sono previste 18 rate (5 anni). Le prime due si pagano il 31 luglio e il 30 novembre del 2013 e comprendono il 10% dell’intero importo rottamato. Le restanti 16 rate si pagano il 28 febbraio, 31 maggio e 30 novembre di ogni anno.

Mi conviene rottamare?

Non sempre. Prima di impegnarsi a pagare delle somme importanti, consiglio di fare un attento esame della propria esposizione debitoria (clicca qui se vuoi sapere come fare) per valutare quali cartelle conviene rottamare e quali invece si possono annullare.

Ci possono essere somme annullabili?

Certo!

Ad esempio?

Ci sono cartelle mai notificate o non correttamente notificate. Queste possono essere oggetto di annullamento in sede giudiziale. Ci sono, poi, moltissimi casi di prescrizione che se correttamente valutati potrebbero portare all’annullamento del debito.

Allora cosa mi conviene fare prima di rottamare?

Esaminare attentamente la propria posizione debitoria per valutare con consapevolezza quale cartella sia preferibile rottamare e quale invece opporre in sede giudiziale.

                                                                                      Vuoi capire se conviene aderire alla rottamazione?

La nullità della notifica avvenuta mediante PEC

L’esperienza in materia tributaria mi suggerisce di non cadere in facili entusiasmi, soprattutto quando si tratta di commentare nuovi orientamenti provenienti dalle Corti di merito, tra l’altro favorevoli al contribuente. Tutto ciò, almeno, fintanto che la Corte di Cassazione non ci metta un bel sigillo di “visto e piaciuto”.

Ad ogni modo, seppur con prudenza, possiamo dire che l’orientamento pressoché prevalente in materia di notifica degli atti tributari (parliamo per lo più di cartelle di pagamento) è quello di dichiarare la nullità, a volte l’inesistenza (come sarebbe più corretto), della notifica delle cartelle pervenute a mezzo Posta Elettronica Certificata da un indirizzo diverso da quello contenuto nei registri pubblici.

Ultima in tal senso è la Commissione Tributaria Regionale del Lazio che con la sentenza n. 915/11/2022 ha stabilito che:

La giurisprudenza di merito, investita della materia si è espressa nel senso di ritenere inesistente la notifica tramite pec degli atti impositivi proveniente da un indirizzo pec non presente nei pubblici elenchi.

Si segnala, tra le altre, la sentenza n. 7080 del 6 ottobre 2021 emessa dalla CTR Campania, con cui è stato affermato detto principio, applicando l’insegnamento della Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 17346 del 27.6.2019, ha statuito che la notifica tramite PEC degli atti impositivi può considerarsi efficace soltanto qualora provenga da un indirizzo PEC presente in pubblici elenchi (Reginde, INIPEC, IPA).

Nel caso che ne occupa l’Agenzia delle Entrate Riscossione, non ha fornito la doverosa dimostrazione della validità dell’indirizzo di posta certificata utilizzato per la notifica della cartella, così violando il principio dell’affidamento che solo la rigorosa applicazione della legge garantisce, sicché, ritenendo il Collegio, facendo proprio l’insegnamento della Corte di Cassazione innanzi citato, che la notifica a mezzo PEC da sito non ufficiale degli atti tributari sostanziali e processuali è inesistente e, come tale, non suscettibile di sanatoria, ne consegue la fondatezza dell’assorbente eccezione di nullità della notifica della cartella di pagamento, nonché la sua ammissibilità nel presente grado di giudizio.

Per amor di verità, la sentenza della Corte di Cassazione richiamata dalla CTR del Lazio non dispone affatto la nullità degli atti tributari notificati a mezzo PEC da un indirizzo non presente nei registri pubblici, ma si limita a dichiarare l’inammissibilità del ricorso per insufficienza dello stesso. Quindi la questione a tutt’oggi non è stata compiutamente trattata dalla giurisprudenza di legittimità e, proprio per detta ragione, mi limito solo a registrare un orientamento che attualmente può essere considerato percorribile dal contribuente. Percorribile anche per le seguenti ragioni.

In primo luogo, fu la stessa Agenzia delle Entrate Riscossione, con nota di cui al prot. 2017 -EQUISDR- 3622446, del 22.05.2017  e nota di cui al prot. n. DAG 102173 del 25/5/2017 a comunicare ai vari Enti che, dal 01.07.2017, le uniche pec che avrebbe utilizzato sarebbero state le seguenti:

protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it;

pct@pec. agenziariscossioneriscossione.gov.it.

Vi è poi che gli elenchi pubblici contenenti gli indirizzi PEC sono individuati dall’art. 16 ter del D.L. n. 179 del 2012. Tra questi, i più noti sono, ad esempio, l’elenco INI-PEC (che comprende gli indirizzi di posta elettronica certificata di imprese e professionisti operanti sul territorio nazionale) e il Registro PA, in cui sono ricompresi i vari indirizzi PEC che fanno capo alle pubbliche amministrazioni. Gli indirizzi PEC indicati sul sito dell’AdER sono entrambi ricompresi in tali elenchi (per la precisione, uno nel registro INI-PEC e l’altro nel REGISTRO PP.AA.).

Le norme che regolano la notifica a mezzo Pec dell’atto tributario da parte dei Concessionari sono quelle di cui all’art. 26, comma 5 del D.P.R. n. 602 del 1973 ed art. 60 D.P.R. n. 600 del 1973.

L’art. 16 ter, comma n. 1 del D.L. n. 179 del 2012 dispone che da  15/12/2013 per “pubblici elenchi si intendono quelli previsti dagli articoli 6-bis, 6-quater e 62 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, dall’articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall’articolo 16, comma 6, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, nonchè il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia, e cioè INI-PEC- Indice PA – e PCT e, pertanto, la notifica Pec si intende validamente effettuata ( nel rispetto degli altri requisiti richiesti ex lege) se effettuata da un indirizzo Pec certificato ed inviato ad un indirizzo Pec anch’esso certificato.

Ora dal richiamato quadro normativo emerge che il legislatore ha sancito la necessità che l’attività di notifica avvenga mediante l’utilizzo di indirizzi di posta elettronica risultanti dai pubblici elenchi: al fine di assicurare la necessaria certezza sulla provenienza e sulla destinazione dell’atto notificando.

Quindi, in definitiva hanno ragione le Corti di merito a sostenere l’illegittimità della notifica a mezzo PEC avvenuta al di fuori dei registri pubblici, così come ha ragione il contribuente a far valere il proprio diritto alla regolare notifica di un atto tributario chiamando in causa, per la sua nullità (io sostengo si tratti di inesistenza) l’Amministrazione Finanziaria.

Vuoi verificare la tua posizione debitoria?

 

Posizione debitoria con ex equitalia? Ecco cosa fare…

Ho dei debiti presso l’Agenzia delle Entrate – Riscossione, posso fare qualcosa?

Certo. Per prima cosa è necessario fare delle verifiche per capire a quanto ammonta esattamente il debito complessivo e a quali cartelle o avvisi di accertamento o di addebito si riferisce.

A cosa serve la verifica?

Serve a capire se ci siano dei debiti prescritti e se le cartelle di pagamento o gli avvisi di accertamento a cui si riferisce il debito siano stati correttamente notificati.

Come si fa a verificare la correttezza della notifica?

Bisogna recarsi presso gli uffici degli enti che hanno emesso l’atto e chiedere la relazione di notifica. Infatti, solo dalle relazione fatta dall’agente notificatore possiamo accertarci se l’atto è stato correttamente notificato. In sostanza, la verifica consiste nell’individuare se il notificatore ha rispettato le norme di legge in materia di notifica degli atti tributari. Chiaramente, per far ciò, è necessario conoscere molto bene la normativa, per tale ragione consiglio di farsi assistere da un professionista nella fase di verifica.

Ci sono casi di notifiche errate?

Moltissimi. Posso fare una marea di esempi. Un caso che mi capita spesso è quello dell’agente notificatore che consegna l’atto a un familiare del contribuente (moglie, figli, ecc.) a causa della temporanea assenza di quest’ultimo. Ebbene, in questa ipotesi la legge prevede che debba essere inviata una successiva raccomandata per informare il destinatario dell’avvenuta consegna dell’atto a persona di famiglia. In mancanza dell’invio della raccomandata informativa la notifica è nulla e ciò può portare alla nullità del debito indicato nell’atto. Ma questo, come dicevo prima, è solo una delle tante ipotesi di nullità della notifica. Ci sono perfino casi in cui la relazione di notifica non è stata compilata  correttamente, integrando un’ipotesi di inesistenza della notifica.

Allora conviene fare sempre una verifica…

Si, è esatto. E’ buona pratica fare un esame approfondito della propria posizione debitoria anche quando si vuole pagare rateizzando il debito o accedere a qualche rottamazione. Magari in quella sede si scoprono anche ipotesi di prescrizione del debito…

Prescrizione?

Si, è un caso frequente, almeno quanto quello della nullità per irrituale notifica degli atti. Spesso, infatti, ci si accorge che le somme iscritte a ruolo dall’Agenzia della Riscossione sono cadute in prescrizione per mancanza di atti interruttivi, o perché gli atti interruttivi non sono stati correttamente notificati. Comunque, c’è anche un’altra straorinaria possibilità per uscire da una complicata posizione debitoria…

Di che si tratta?

Della nuovissima legge di ristrutturazione dei debiti che entrerà in vigore fra pochissimo, e che pochi conoscono, che permette di ridurre dal 50% al 70% il proprio debito. Per un approfondimento clicca qui.

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La comunicazione ex art. 36 bis è impugnabile?

Nelle aule delle Commissioni Tributarie è ormai principio consolidato che la comunicazione d’irregolarità ex art. 36 bis non può essere oggetto di contenzioso tributario. Secondo i Giudici occorre, eventualmente, attendere la notifica della successiva cartella di pagamento per opporsi nel merito alla pretesa dell’Agenzia delle Entrate. Ciò implica un’iscrizione a ruolo con tutto ciò che ne è connesso.

L’orientamento dei giudici tributari parte dal seguente erroneo assunto: la comunicazione d’irregolarità non è un atto impugnabile in quanto è escluso dal novero tassativo degli atti impugnabili elencati all’art. 19 del  D.lgs. n. 546 del 1992.  Inoltre, sempre a parere dei Giudici, la comunicazione di irregolarità non contiene una pretesa tributaria definitiva, limitandosi a rettificare la quantificazione dell’imposta già dichiarata, precedendo gli atti impositivi di cui allo stesso art. 19.

In buona sostanza, si qualifica l’avviso bonario come un invito al pagamento rivolto al debitore, avente carattere istruttorio e destinato ad inserirsi nel contraddittorio tra le parti.

L’orientamento dei giudici di merito però è stato recentemente smentito, non solo dal buon senso, ma anche dalla Corte di Cassazione.

Infatti, la Suprema Corte con la sentenza n. 18974/2021 ha chiarito una volta per tutte che “…ogni atto adottato dall’ente impositore che porti, comunque, a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, con la conseguenza che è immediatamente impugnabile dal contribuente anche la comunicazione d’irregolarità, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis, comma 3 (cd. avviso bonario) (Cfr. Cass., V, sent. n. 12133/2019, in senso conforme Cass. 19/02/2016, n. 3315; Cass. 11/05/2012, n. 7344). In altri termini, ogni atto con cui l’Ufficio dia notizia al contribuente di una specifica pretesa tributaria, con allegazione delle ragioni di fatto e di diritto ad essa sottese, è suscettibile di immediata impugnazione”.

Ebbene, la comunicazione d’irregolarità visto che contiene i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche e la quantificazione della pretesa che si intende contestare è un atto impugnabile innanzi alla Commissione Tributaria nel termine di 60 giorni dalla ricezione dello stesso. Non è più  necessario attendere l’iscrizione a ruolo della pretesa e la notifica della cartella di pagamento per far valere le proprie ragioni in sede giudiziaria.

Hai rottamato una cartella e non puoi versare le rate?

Molti sono gli italiani che hanno deciso di aderire alla definizione agevolata delle cartelle di pagamento (c.d. rottamazione ter) ritenendo che fosse la migliore soluzione anche per evitare azioni cautelari o esecutive da parte dell’ex Equitalia.

Nonostante ciò, complice anche la pandemia da Covid 19, può accedere che pur avendo presentato l’istanza di adesione, il contribuente non sia più in grado di adempiere al piano di rateazione delle somme inizialmente concordato. Ebbene, com’è noto, il mancato pagamento anche solo di una rata comporta la decadenza dalla definizione agevolata e l’impossibilità ad accedere a una successiva rateazione del debito, senza contare che l’ex Equitalia potrà promuovere immediatamente tutte le azioni per il recupero delle somme iscritte a ruolo. Azioni che in molti casi possono essere particolarmente invasive, come ad esempio il pignoramento sul conto bancario o sullo stipendio, il fermo del proprio veicolo o l’iscrizione d’ipoteca sull’immobile.

Cosa fare in casi simili?

Inutile dire che già solo aver richiesto la definizione agevolata oppure aver versato anche una rata del piano di  rateazione, complica notevolmente le cose. Ma non è il caso di disperare. Una possibile soluzione a disposizione del contribuente è quella di verificare se gli atti oggetto di rottamazione siano stati correttamente notificati secondo i dettami legislativi.

Molti, infatti, sono i casi di illegittimità degli atti per il mancato rispetto delle norme in materia di notifica. Basta il mancato invio di una raccomandata successiva prevista dalla legge a far invalidare l’intera notifica  In caso di irregolarità nelle notifiche si potrà dunque  ricorrere in sede giudiziale per ottenere la nullità dell’iscrizione a ruolo.

Bisogna individuare, in questi casi, la strada migliore da seguire.

Detta verifica si deve fare presso i preposti Uffici dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, oppure nel caso di notifica di avvisi di accertamento presso l’Agenzia delle Entrate, chiedendo sia l’estratto di ruolo sia le relazioni di notificazione delle cartelle rottamate. Quanto sopra vale anche per gli avvisi di accertamento esecutivi notificati dall’Agenzia delle Entrate (le relate di notifica in quest’ultimo caso si chiedono all’Ufficio Provinciale dell’Agenzia delle Entrate territorialmente competente) oppure gli avvisi di addebito dell’INPS (le relate di notifica si chiedono all’Ufficio INPS). Per i contributi INPS iscritti a ruolo vi è, inoltre, la probabilità che essi siano nel frattempo caduti in prescrizione!

L’unica raccomandazione che posso dare è quella di fare esaminare la documentazione a un professionista di cui avete fiducia e che conosca molto bene la materia tributaria.

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Hai aderito alla rottamazione?

Attenzione:

Se hai aderito alla rottamazione e non hai la possibilità di versare le rate rimanenti, hai sempre la possibilita’ di rivedere tutta la tua posizione debitoria. 

 Abbiamo riscontrato che molti dei contribuenti che hanno aderito alla rottamazione, in verità, avevano dei debiti già prescritti o cartelle notificate in modo illegittimo.

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Prescrizione 5 anni IMU: conta la consegna dell’atto al destinatario.

Una delle questioni dibattute nelle aule delle Commissioni Tributarie è quella della prescrizione dei tributi e delle imposte. In particolare, molte controversie vertono sullo stabilire il termine entro il quale l’ente impositore può consegnare l’atto al contribuente senza far maturare la prescrizione del tributo o dell’imposta richiesta.

In altri termini, la domanda che ci si pone è la seguente: per evitare la prescrizione è sufficiente la consegna dell’atto alle poste, anche se poi la consegna materiale dell’atto al destinatario avviene in data successiva?

Facciamo un esempio: avviso di accertamento IMU per l’anno d’imposta 2014; il Comune consegna l’atto alle Poste il 29/12/2019, mentre il contribuente riceve l’avviso di accertamento il 3/1/2020.

La consegna dell’atto alle Poste ha interrotto il termine di prescrizione?

Ebbene, trattandosi di IMU, la cui prescrizione è quinquennale, il termine ultimo per la consegna dell’atto al destinatario scadeva il 31/12/2019; pertanto, la mera consegna alle Poste non rileva ai fini della prescrizione. Nell’esempio di prima, dunque, il contribuente poteva ricorrere in sede giudiziale per far dichiarare l’intervenuta prescrizione dell’imposta.

Questo, del resto, è il principio espresso dalla recentissima pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenza n. 7210/6/2021) che dopo un’attenta analisi giuridica sulla differenza tra decadenza e prescrizione ha accolto il ricorso del contribuente annullando la pretesa impositiva.

La Commissione, infatti, ha precisato che:  

Mentre per la decadenza è sufficiente un mero atto di esercizio, come può essere la consegna del plico raccomandato all’ufficio postale entro la scadenza del previsto termine (non potendo, altrimenti, imputarsi all’ente impositore eventuali disservizi del servizio postale), viceversa l’atto interruttivo della prescrizione è per antonomasia atto recettizio, ossia deve essere portato a conoscenza del destinatario affinché possa dispiegarsi l’efficacia interruttiva.

Può quindi accadere, come nel caso di specie, che consegnato il plico tempestivamente – e dunque perfezionatosi il tempestivo esercizio della potestà autoritativa – lo stesso pervenga a destinazione dopo che il termine quinquennale sia ormai scaduto, sicché la notifica intempestiva non può esplicare efficacia interruttiva della prescrizione.

In buona sostanza, la Commissione ha accolto la tesi dello Studio Legale Sgrò circa la produzione nel caso in esame della c.d. scissione degli effetti della procedura notificatoria, il cui principio è oggi consacrato dal nuovo testo dell’art. 149, comma terzo, c.p.c., secondo cui la notifica (chiaramente a mezzo del servizio postale) si perfeziona per il soggetto notificante al momento della consegna del

plico all’ufficiale giudiziario e per il destinatario dal momento in cui lo stesso ha

la legale conoscenza dell’atto.

Un caso, dunque, conclusosi bene se non fosse per la decisione, alquanto discutibile, di compensare le spese di lite!

Facciamo una precisazione importante: come ho già avuto modo di approfondire in una recente intervista a Radio Roma Capitale, la prescrizione non opera automaticamente, ma deve essere sempre fatta valere in sede giudiziaria. Quindi, se dovessi ricevere un atto il cui tributo è prescritto è mio onere fare opposizione nei termini di legge innanzi al Giudice per far rilevare l’intervenuta prescrizione. Se, al contrario, lo ripongo nel cassetto e faccio decorrere i termini per ricorrere in sede giudiziaria, non avrò più la possibilità di far valere la prescrizione e sarò costretto a versare le somme richieste dall’ente impositore.

Vendere un immobile con ipoteca ex equitalia?

Si può vendere un immobile con iscritta un’ipoteca da parte dell’ex Equitalia?

Si, la risposta è senza dubbio positiva.

La legge prevede la possibilità del debitore di vendere l’immobile su cui è iscritta ipoteca da parte dell’ex Equitalia purché si rispettino alcuni parametri previsti all’art.52 del D.P.R. 603/1972.

Cosa dice la l’art.52?

La norma prevede che “Il debitore ha facoltà di procedere alla vendita del bene pignorato o ipotecato al valore determinato ai sensi degli articoli 68 e 79, con il consenso dell’agente della riscossione, il quale interviene nell’atto di cessione e al quale è interamente versato il corrispettivo della vendita. L’eccedenza del corrispettivo rispetto al debito è rimborsata al debitore entro i dieci giorni lavorativi successivi all’incasso

In sostanza, per poter vendere l’immobile bisognerà fare dei calcoli sulla rendita catastale con le dovute maggiorazioni e presentare un’istanza ben argomentata all’Agente della Riscossione per chiedere a quest’ultima il consenso alla vendita e la partecipazione di un loro funzionario al rogito notarile.

Vi sono casi, anche molto frequenti, in cui il valore determinato con la rendita catastale ex art. 52 è di molto superiore al valore che possiamo ricavare dalla vendita dell’immobile (per intenderci al valore di mercato).  In questi casi, il consenso alla partecipazione della vendita è legato al debito iscritto a ruolo. In altri termini se il debito iscritto presso ex Equitalia è maggiore al ricavato dalla vendita, l’Agenzia probabilmente rigetterà la nostra richiesta.

Cosa fare in casi simili?

Prima cosa: non scoraggiarsi!

Ci sono diverse strade da seguire, questo dipende molto dalla particolare situazione in cui ci si trova, per questo non mi è possibile indicare in astratto delle possibili soluzioni. Vanno esaminate caso per caso.

C’è pur sempre, in extrema ratio, la possibilità di rappresentare all’Agente della Riscossione e Agenzia delle Entrate, tramite apposita istanza ben documentata (completa di perizia estimativa e proposta di acquisto), che il valore reale dell’immobile è ben diverso da quello di cui all’art. 52, risalente a una norma degli anni 70.

Si può azionare la procedura anche se l’ipoteca è iscritta a carico di un solo comproprietario?

Si, certamente!

Facciamo un esempio: Alberto e Giovanna sono fratelli e comproprietari di un immobile ciascuno al 50%. Alberto, avendo dei debiti con l’ex Equitalia, si è visto iscrivere ipoteca per la sua quota. Giovanna, pur non avendo debiti con l’Agenzia della Riscossione, e pur essendo intenzionata a vendere l’immobile, si vede costretta a tenersi l’immobile insieme ad Alberto perché oggetto di ipoteca. Nascono, quindi, discussioni in famiglia che sfociano in liti tra fratelli.

La soluzione c’è.

La casa si può vendere. Per far ciò le parti, con l’ausilio di un legale specializzato in materia, dovranno compiere i diversi passaggi della procedura di cui all’art. 52. Oppure, nel caso in cui detta normativa non sia applicabile al caso concreto, percorrere una delle tante vie alternative, che ci sono e che il consulente di fiducia saprà certamente indicarvi in modo da vendere l’immobile libero da ipoteca e…salvare i rapporti familiari.

Sia sempre chiara una cosa: il comproprietario che non ha debiti con l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, in caso di vendita percepirà dall’acquirente, l’intero pagamento relativo alla sua quota.

Vuoi vendere il tuo immobile con iscritta ipoteca?

 

Nullità del fermo amministrativo dell’auto

Una delle azioni particolarmente invasive da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione consiste nel fermo dell’autovettura dei contribuenti.

Avere l’auto bloccata può portare a gravi problematiche quali l’impossibilità di recarsi a lavoro e, più in generale, di muoversi in libertà. Gravi conseguenze le subiscono anche quelle società che attraverso i propri mezzi di trasporto svolgono le normali attività dell’azienda.

In quest’ultimo caso il principio di diritto è che l’autovettura adibita all’attività lavorativa di una società non può mai essere oggetto di fermo amministrativo. Nonostante ciò, spesso l’Agenzia delle Entrate Riscossione, in violazione alle norme di legge, procede comunque al fermo del veicolo costringendo il contribuente ad agire in giudizio per la rimozione della misura invasiva.

Recentemente, il mio studio è stato costretto a ricorrere innanzi alla Commissione tributaria per chiedere la cancellazione di un fermo su un veicolo aziendale.

Il ricorso è stato accolto. Infatti, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma con la sentenza n. 7067/9/2021 ha dichiarato l’illegittimità del fermo amministrativo e ne ha disposto l’immediata cancellazione, in quanto la società contribuente ha adeguatamente documentato la strumentalità del veicolo all’attività dell’impresa.

In particolare, in giudizio, abbiamo depositato non solo le scritture contabili da cui emergeva la presenza del bene, ma anche tutta una serie di contratti stipulati dalla società con dei propri clienti che dimostravano la funzionalità del bene al servizio reso dall’azienda. In altri termini, con detti contratti emergeva l’imprescindibilità del bene per l’azienda, poiché i rapporti con i clienti non potevano tenersi se non mediante l’utilizzo di quel veicolo risultante dalle scritture contabili.

Del resto, anche una recente pronuncia della Commissione Tributaria Regionale del Lazio ha valorizzato la circostanza che il bene sottoposto a fermo fosse l’unica auto disponibile: «… avendo la ricorrente dimostrato che il bene oggetto di fermo era un bene strumentale (con l’iscrizione dello stesso nei registri contabili), il Concessionario non poteva assolutamente iscrivere il fermo amministrativo sull’unica auto utilizzata per l’attività professionale  » (CTR Lazio, 28 aprile 2016, n. 2482; nello stesso senso anche CTP Frosinone, 1 dicembre 2016, n. 870).

Sulla medesima linea, si è ritenuto non possa costituire oggetto di fermo «… l’unico autoveicolo in possesso del ricorrente  » in quanto « strumentale alla propria professione di avvocato che può prevedere frequenti ed imprevedibili spostamenti sul territorio per lo svolgimento della propria attività » (CTP Perugia, 10 febbraio 2015, n. 40; CTP Napoli, 6 dicembre 2016, n. 20789).

C’è anche da precisare che spesso in sede contenziosa, l’Agenzia delle Entrate – Riscossione sostiene  che il contribuente, ai sensi dell’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973, sarebbe comunque obbligato, entro 30 giorni dalla notifica del preavviso di fermo, prima di agire in giudizio, a fornire i documenti circa la strumentalità del bene presso la sede dell’Agenzia, tutto ciò a pena dell’inammissibilità del ricorso.

Come evidenziato dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio con la sentenza n. 7067/9/2021 il termine ex art. 86 non è un termine perentorio non essendo prevista alcuna decadenza in caso di sua inosservanza; inoltre, la dimostrazione della strumentalità del bene all’attività dell’impresa può ben essere eccepita e documentata per la prima volta nel giudizio che il contribuente ha deciso di intraprendere avverso il fermo del veicolo.

Ora, tutte le sentenze in commento prendono a riferimento una delle eccezioni che possono essere sollevate nel corso di un giudizio avente ad oggetto un fermo amministrativo, ma altre eccezioni possono ben essere fatte valere, ciò dipende dal caso concreto. Molte cancellazioni del fermo, a esempio, sono state ottenute per intervenuta prescrizione delle somme richieste o per omessa notifica del preavviso di fermo, atto quest’ultimo che deve necessariamente essere notificato prima di procedere al fermo del veicolo.

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Attenzione anche l’iscrizione ipotecaria è soggetta a prescrizione

La tesi del fisco è stata sempre quella di considerare l’iscrizione ipotecaria completamente al riparo dalla prescrizione dei tributi.

Le cose però non stanno così.

I tributi, le imposte, le sanzioni e tutto ciò che ha portato all’iscrizione di ipoteca si prescrive nei termini di legge e, pertanto, lo spirare del tempo può portare a una rideterminazione in diminuzione dell’iscrizione ipotecaria o, nella migliore delle ipotesi, alla sua cancellazione. Tutto ciò, chiaramente, se nel frattempo l’Agenzia delle Entrate – Riscossione non ha notificato atti interruttivi, come ad esempio un’intimazione di pagamento.

Il principio della prescrizione dei tributi sottesi all’iscrizione ipotecaria ha avuto sempre enormi difficoltà ad attecchire nelle aule delle Commissioni Tributarie, ma forse le cose stanno per cambiare.

Infatti, recentemente la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18305/2020 ha finalmente stabilito che l’iscrizione ipotecaria, purché notificata alla parte, è un atto interruttivo della prescrizione con effetti istantanei. Ciò significa che una volta iscritta l’ipoteca, i tributi, le imposte, i contributi sottesi all’iscrizione stessa cadono in prescrizione secondo le regole dettate per detti tributi, imposte e contributi.

Il caso trattato dalla Corte di Cassazione ha a oggetto un’iscrizione ipotecaria per il mancato pagamento dei contributi INPS. Ebbene, detti contributi si prescrivono in 5 anni. Una volta iscritta l’ipoteca, l’Agenzia delle Entrate è tenuta a notificare al contribuente un atto interruttivo della prescrizione, altrimenti il giudice potrà dichiarare l’intervenuta prescrizione delle somme oggetto di misura cautelare con ordine di cancellazione dell’ipoteca esattoriale.

Il Principio espresso dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 18305/2020) è perentorio: “…deve escludersi l’efficacia interruttiva permanente all’iscrizione ipotecaria del D.P.R. n. 692 del 1973, ex art. 77; alla medesima iscrizione può riconoscersi, piuttosto, l’idoneità a produrre effetti interruttivi istantanei qualora presenti i connotati dell’atto di costituzione in mora, a norma dell’art. 2943 c.c., comma 4, e cioè se integri una manifestazione scritta di esercizio e di tutela del diritto da parte del creditore, comunicata personalmente al debitore, secondo una valutazione che è oggetto di accertamento rimesso al giudice del merito”.

Ci auguriamo che da oggi le Commissioni Tributarie abbiamo un elemento in più nel riconsiderare la loro posizione in materia di ipoteca e prescrizione.

Se vuoi verificare la tua posizione debitoria, compila il modulo qui sotto e sarai contattato in pochissimo tempo. Oppure puoi chiamarci (06.68.89.18.96)

Intimazione di pagamento? Ecco cosa fare…

Che cos’è un’intimazione di pagamento?

 L’intimazione di pagamento è un sollecito che l’Agenzia delle Entrate – Riscossione (ex Equitalia) invia al contribuente per chiedere il versamento, entro un brevissimo termine (5 giorni), delle somme precedentemente ingiunte mediante la cartella di pagamento, degli avvisi di accertamento o degli avvisi di addebito.

Cosa succede se non si paga nel termine di 5 giorni?

In caso di mancato pagamento nel termine, l’Agenzia delle Entrate – Riscossione potrà procedere in via esecutiva (pignoramento del conto bancario – pignoramento dello stipendio ecc..) ovvero in via cautelare (fermo del veicolo – iscrizione di ipoteca).

Ci sono dei rimedi contro un’intimazione di pagamento?

Si, è sempre possibile fare ricorso innanzi al Giudice o alla Commissione tributaria qualora siano presenti dei vizi invalidanti.

Ad esempio?

Oltre al caso di aver già versato le somme intimate o di aver impugnato gli atti precedenti che un giudice ha annullato, ci sono molte ipotesi di illegittimità dell’atto, un esempio potrebbe essere il difetto di motivazione.

Di che si tratta?

L’intimazione di pagamento, come ogni altro atto tributario o della riscossione, deve permettere al contribuente di comprendere immediatamente le ragioni della pretesa e fornirgli ogni informazione in merito all’esercizio del proprio diritto di difesa. Per esempio la Corte di Cassazione già con la sentenza n. 3281 del 2020, poi confermata con successive pronunce, ha stabilito che l’intimazione di pagamento deve  indicare a pena di nullità:

a) l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento;

b) l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame in sede di autotutela;

c) le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili.

Ma c’è di più…

Cioè?

L’atto deve indicare nel dettaglio il computo degli interessi con riferimento al tasso applicato ed al metodo di calcolo adottato, non basta che sia presente un numero verde a cui rivolgersi. Spesso l’intimazione di pagamento non contiene tutto ciò.

Oltre al difetto di motivazione ci sono altri vizi?

Si, certo. Un altro vizio che spesso porta all’annullamento dell’intimazione e dell’intero debito è l’omessa notifica degli atti precedenti. Quindi bisogna verificare con attenzione le notifiche delle precedenti cartelle di pagamento o avvisi di accertamento indicati nell’intimazione.

Come bisogna fare in questi casi?

Chiedere all’Agenzia delle Entrate – Riscossione la copia delle relate di notifica di tutti gli atti indicati nell’intimazione e farle visionare da chi conosce a fondo la materia. Un minimo errore commesso nella notifica di un atto tributario  può portare all’annullamento dell’intimazione.

Si possono verificare casi di prescrizione dei tributi?

Si, accade spesso che le somme intimate siano cadute in prescrizione, anche in questo caso bisogna sapere bene i termini di prescrizione.

Vuoi capire se l’intimazione di pagamento che ti è stata notificata è corretta?

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Notifica della cartella a mezzo PEC

Si è molto detto, e scritto, in merito alla legittimità della notifica della cartella di pagamento o degli atti della riscossione a mezzo posta elettronica certificata. Il punto su cui maggiormente si sono focalizzati i contribuenti nell’eccepire la legittimità in sede giudiziale di dette notifiche era l’estensione del file inviato dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

Solo la firma digitale può garantire l’integrità, l’modificabilità del documento informatico e l’identificabilità del suo autore.

In sostanza si è sempre sostenuto che se il file contenente la cartella di pagamento fosse di formato pdf., senza alcuna firma digitale da parte dell’Agente della Riscossione, la notifica si sarebbe dovuta  considerare inesistente, o quantomeno nulla. Difatti, solo la firma digitale può garantire l’integrità, l’immodificabilità del documento informatico e l’identificabilità del suo autore.

Noi illusi, lo abbiamo scritto nei nostri atti, lo abbiamo detto a gran voce alle udienze di discussione pubblica della causa patrocinata innanzi al Collegio Tributario. Non dicevamo corbellerie: detto principio non lo avevamo inventato noi, lo avevamo preso a prestito dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (Cass. SS. UU. n. 10266 del 27 aprile 2018). Poi c’era il diritto comunitario: le firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, sono entrambe ammesse ed equivalenti, sia pure con le differenti estensioni “. p7m” e “.pdf”, e devono, quindi, essere riconosciute valide ed efficaci.

Ebbene, tanto sforzo per nulla: le nostre tesi hanno dovuto cedere difronte a molteplici pronunce, dapprima delle Corti di merito (salvo rare eccezioni) e poi dalla giurisprudenza di legittimità che, in estrema sintesi, ha affermato che va bene qualsiasi file ai fini della validità della notifica: la firma digitale non è elemento necessario (Cass. ord. 6417/2019). Si è detto perfino che “…ai fini dell’immodificabilità del contenuto è sufficiente l’estensione.pdf, la quale, per l’appunto, fornisce adeguate garanzie circa l’impossibilità di alterazione del contenuto del file che beneficia di questa specifica estensione” (CTP Salerno sent. 1871/12/2020)

Decisioni politiche? aberrazioni del diritto? o illuminanti conclusioni giuridiche? Lascio a voi la risposta.

Per quanto mi riguarda preferisco, piuttosto, concentrarmi su un altro aspetto, sempre in materia di notifica a mezzo PEC degli atti della riscossione, non meno importante e che recentemente ha trovato accoglimento nelle Commissioni Tributarie di merito.

Mi riferisco all’inesistenza giuridica della notifica a mezzo PEC della cartella di pagamento, qualora provenga da un indirizzo di posta elettronica non presente nei registri ufficiali.

Tutto ha inizio a seguito di alcune notifiche di atti della riscossione effettuati dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione da un indirizzo pec sconosciuto (“notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it”), poiché non presente nei registri ufficiali né riferibile all’agente della riscossione anche attraverso il ricorso a fonti aperte.

Si tratta di un indirizzo di posta elettronica che non risulta nell’elenco del Reginde – (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici gestito dal Ministero della Giustizia) – né nella pagina ufficiale del sito internet di Agenzia Entrate Riscossione, né nella pagina della CCIAA, né in quella di INDICEPA, Indice delle Pubbliche Amministrazioni.

In materia è recentemente intervenuta la Commissione Tributaria Provinciale di Roma con la sentenza n. 9274/13/2020, che ha affermato: “La cartella di pagamento impugnata deve considerarsi inesistente, essendo stata notificata – come dimostrato dalla documentazione prodotta dalla società ricorrente – attraverso una casella pec spedita da un indirizzo di posta certificata (“notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it”) non risultante dai registri ufficiali Reginde o Indice PA, né riferibile all’agente della riscossione neanche attraverso il ricorso al sito web dell’Agenzia…la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”; nel caso concreto, essendosi fornita la dimostrazione, che la cartella è stata spedita da un indirizzo mail diverso da quelli contenuti nei pubblici elenchi, deriva che la notificazione dell’atto impugnato deve considerarsi inesistente”.

Ebbene, qualche cautela però la dobbiamo avere nel proporre simili eccezioni.

In primo luogo, sebbene la Commissione Tributaria di Roma abbia dichiarato correttamente l’inesistenza della notifica di una cartella proveniente da un indirizzo sconosciuto, dobbiamo considerare che il nostro Collegio adito potrebbe rilevarne solo la nullità, con conseguenze disastrose per la nostra difesa. Infatti, se abbiamo impugnato lo stesso atto che consideriamo illegittimamente notificato, incorreremmo nella discutibile sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c. per il raggiungimento dello scopo dell’atto.

In altri termini, la Commissione potrebbe ben dirci che effettivamente la notifica sia nulla poiché proveniente da indirizzo sconosciuto, ma nello stesso tempo confermarne la legittimità dell’atto in quanto abbiamo proposto ricorso nel termine di legge, così sanando il vizio della nullità della notifica. Insomma, ai fini pratici avremmo fatto un vero e proprio buco nell’acqua.

Diverso esito avremmo avuto nel caso in cui l’astuto contribuente, anziché impugnare immediatamente l’atto illegittimamente notificato, avesse proposto ricorso non avverso l’atto maldestramente notificato, ma nei confronti dell’atto successivo, contestando l’omessa notifica dell’atto prodromico.

Oppure, il risultato sarebbe stato ben raggiunto impugnando l’iscrizione a ruolo e contestando l’omessa notifica della cartella di pagamento.  In questi casi la sanatoria ex art. 156 c.p.c. non può applicarsi.

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Unità collabente: legittimità dell’accertamento catastale e tributario

Attribuire a un’unità immobiliare la categoria F/2 (c.d. collabente), può comportare degli accertamenti catastali da parte dell’Agenzia delle Entrate – Ufficio del territorio e anche degli accertamenti tributari dalle Amministrazioni locali.

Motivazione dell’accertamento

Spesso questi accertamenti sono privi di una valida motivazione e, pertanto, la prima eccezione che il contribuente deve svolgere e argomentare in un eventuale contenzioso, prima ancora di entrare nel merito dell’accertamento, è l’illegittimità del provvedimento per omessa o carente motivazione. Questo argomento è stato più volte trattato in vari articoli consultabili sul mio sito (vedi: accertamento catastale.)

In estrema sintesi, possiamo certamente affermare che vi è un difetto di motivazione dell’atto quando la proposta di variazione catastale presentata dal contribuente mediante il modello DOCFA non venga accettata dall’Ufficio, senza specificare concretamente, sugli elementi di fatto indicati dal possessore dell’immobile, le ragioni di tale rigetto.

Non c’è altra strada praticabile per l’Ufficio: deve sempre mettere  il contribuente nella condizione di capire le ragioni di un accertamento e di poter approntare agevolmente le consequenziali difese. Inoltre, la motivazione ha la funzione di delimitare, con riferimento a dette ragioni, l’oggetto dell’eventuale successivo contenzioso, essendo precluso all’Ufficio di addurre, in giudizio, cause diverse da quelle enunciate.

Nel merito dell’accertamento

Nel merito, l’attribuzione della categoria F/2 presuppone che il fabbricato si trovi in uno stato di degrado tale da comportarne l’oggettiva incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio e, conseguentemente, l’iscrizione in catasto non può che avvenire senza attribuzione di rendita.

Spetta al contribuente dimostrare, in un eventuale contenzioso, l’effettivo stato di degrado e di abbandono dell’immobile.

E’ necessario, ai fini di un buon esito del giudizio di merito, produrre una relazione tecnica particolareggiata dello stato di fatto dell’immobile oggetto di accertamento, corredata da numerose fotografie. Importante sarebbe allegare anche un certificato del proprio Comune che attesti lo stato di inabitabilità dell’immobile perché privo di fossa biologica, di alimentazione idrica ed elettrica.

Proprio su tali elementi si è recentemente basata la Commissione Tributaria Regionale di Taranto (CTR Taranto sent. n. 1273/29/2020)  nell’accogliere le doglianze del contribuente e annullare un accertamento catastale su un’unità dichiarata collabente.

Infine, ai meri fini tributari, è bene aggiungere che la Corte di Cassazione (sentenza n. 23801/17) ha affermato che “…in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), il fabbricato accatastato come unità collabente, oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a quando l’eventuale demolizione restituisca autonomia all’area fabbricabile, che da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul fabbricato ricostruito”. Questo orientamento è stato recentemente confermato, sempre dalla Suprema Corte, con le pronunce nn. 8620/19 e 10122/19.

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Cancellazione segnalazione Centrale Rischi o CRIF? Ecco cosa fare…

Purtroppo, può accadere che a seguito di una richiesta volta a ottenere un finanziamento o un mutuo, ci si senta opporre un rifiuto dovuto alla presenza d’informazioni negative nella Centrale Rischi o in altre banche dati (CRIF ecc).

Le segnalazioni spesso sono illegittime

Quali sono i motivi per chiedere la cancellazione dalla banca dati quale “cattivo pagatore”?

Sono molteplici, ad esempio:

             1. mancato invio della preventiva comunicazione: prima di segnalare il cliente quale cattivo pagatore, la banca è obbligata a comunicare preventivamente a quest’ultimo l’intenzione di procedere alla segnalazione qualora non si rientri del debito entro un certo periodo.  Detta comunicazione, secondo la Corte di Cassazione e i giudici di merito, deve avere dei contenuti ben specifici: non può in alcun caso essere generica. Inoltre, in un eventuale contenzioso, la banca deve sempre dimostrare non solo di aver inviato la comunicazione, ma che questa sia effettivamente pervenuta nella sfera di conoscenza del debitore.

             2. verifica dello stato d’insolvenza: inserire un credito a sofferenza non può avvenire automaticamente solo per un mero ritardo nel pagamento del debito. Simile condotta è ILLEGITTIMA. La banca deve valutare diversi elementi sintomatici prima di procedere alla segnalazione: la capacità produttiva e reddituale del cliente, la situazione di mercato in cui opera, l’ammontare complessivo del credito, fermo restando che non possono tali elementi integrare da soli i presupposti per la segnalazione laddove la concreta situazione del cliente non crei allarme quanto alla sua generale solvibilità.

            3. raggiungimento di un accordo (c.d. saldo e stralcio): è purtroppo frequente che la banca, nonostante si sia raggiunto con il cliente un accordo tombale sul quantum, segnali ugualmente il debito in sofferenza o in perdita, creando enormi danni al cliente stesso. Ciò è vietato!

Cosa deve fare il cliente per chiedere  la cancellazione?

Personalmente preferisco trovare una soluzione amichevole con la banca, inviando un reclamo e coinvolgendo, nel caso, l’Arbitro Bancario. La procedura è abbastanza veloce e spesso si ottengono ottimi risultati. Se ciò non è possibile, ricorro in Tribunale in via d’urgenza chiedendo non solo l’immediata cancellazione del dato negativo ma anche il risarcimento del danno.

Vuoi verificare se la tua segnalazione è illegittima?

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La nuova legge per chi ha difficolta’ a pagare il mutuo, ex equitalia e le finanziarie. Ecco cosa fare…

Ho diversi debiti con l’Agenzia delle Entrate, ex Equitalia, banche e finanziarie, posso fare qualcosa?

Certo, ci sono diverse soluzioni per fare in modo che una persona o l’intera famiglia, magari soffocata dai debiti, possa uscirne e avere finalmente una vita dignitosa. Si tenga presente che ora a causa degli effetti devastanti del c.d. CORONAVIRUS, molte famiglie avranno serie difficoltà a pagare i propri debiti.

Che tipo di soluzioni prospetta?
C’è una nuova legge (D.lgs. n. 14/2019), che manderà definitivamente in soffitta la vecchia normativa del Sovraindebitamento (c.d. salva suicidi). Questa nuova legge prevede una totale ristrutturazione dei propri debiti di qualunque natura.

In sostanza permette, in modo più semplice rispetto al vecchio Sovraindebitamento, di ottenere in sede giudiziale un’importante riduzione dei debiti accumulati negli anni e una rateazione delle somme residue, con diritto di trattenere per sé gli importi necessari per vivere dignitosamente. E’ prevista anche una sanzione processuale per le finanziarie che hanno colpevolmente determinato lo stato d’indebitamento del debitore!

Ci può fare degli esempi?
Si, mi capita spesso di dover assistere delle persone che stanno vivendo una situazione davvero drammatica, in quanto, per cause non dipendenti dalla loro volontà, non riescono più a versare le rate del mutuo (con rischio di perdere la propria abitazione), a pagare i debiti accumulati presso l’Agenzia della Riscossione (IRPEF, IVA, INPS, IMU, ecc.), oppure onorare i prestiti contratti con delle finanziarie (FINDOMESTIC, AGOS, COMPASS, FIDITALIA, ecc.).

Letteralmente sono travolte dai debiti e si sentono senza più una via di uscita. Prima si applicava la legge del Sovraindebitamento, ora con la nuovissima normativa sulla ristrutturazione del debito (entrerà in vigore tra poco) si potrà accedere senza fornire delle stringenti prove che prima sbarravano l’ingresso alla procedura.

Cosa si fa in questi casi?
Si deve chiedere al Giudice, dove ha la residenza o sede legale il debitore, di omologare un piano che prevede l’annullamento di alcuni debiti accumulati e, per la restante parte, disporre una rateazione a favore di determinati creditori. Il piano deve comunque garantire al debitore di poter vivere dignitosamente e liberarsi dai propri debiti. C’è anche la possibilità di liquidare, ai valori di mercato, uno o più beni. E’, inoltre, previsto che i membri della stessa famiglia possono presentare un unico progetto di ristrutturazione dei debiti.

Tutti possono chiedere la riduzione dei debiti?
In linea generale, rispettando tutti i presupposti previsti dalla legge, possono accedere alla procedura di ristrutturazione del proprio debito le persone fisiche, i professionisti, gli imprenditori e le start up. Grazie a questa legge, le famiglie, le piccole imprese e un’ampia gamma di soggetti possono arrivare a ridurre di circa il 50% o il 60% dei propri debiti, ma ciò che più conta possono salvare la propria casa, gli stipendi o le loro pensioni da eventuali pignoramenti.

Si può ricorrere dal giudice anche se la casa è pignorata?
Si, e bisogna farlo in fretta, prima che la casa sia venduta all’asta. Infatti, con la procedura della legge n. 14/2019, il giudice su domanda del debitore, se ricorrono i presupposti, sospende immediatamente la procedura di vendita, permettendo di proporre altre soluzioni.

Quanto dura la procedura?
Dipende da tanti fattori, in linea generale è breve. Dall’introduzione del giudizio all’omologazione di un piano da parte del Giudice può trascorrere solo qualche mese. Diversa è la questione se si decide di liquidare dei beni, in questo caso ci vorrà un po’ più di tempo. Comunque, a parer mio, questa legge rimane un’opportunità STRAORDINARIA per chi vuole uscire definitivamente da una situazione economicamente pesante.

Vuoi valutare se puoi accedere alla nuova legge per annullare gran parte dei tuoi debiti?

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Riduzione dei canoni di locazione per emergenza Coronavirus?

LEGGI L’ULTIMA NOTIZIA: LA NUOVA LEGGE PER CHI HA DIFFICOLTA’ A PAGARE IL MUTUO, EX EQUITALIA E LE FINANZIARIE. ECCO COSA FARE…

Molti imprenditori, nonché piccoli commercianti, in questo periodo, e chissà per quanto tempo ancora, stanno combattendo una duplice battaglia: quella contro il virus e quella economica. In particolare, molti miei clienti mi riferiscono di aver immediatamente accusato un’importante e allarmante contrazione del fatturato con conseguente difficoltà a pagare regolarmente non solo i tributi e le imposte, ma anche i canoni di locazione degli immobili ove esercitano la loro attività commerciale.

In questi casi si può chiedere una riduzione del canone?

Si, senza dubbio. In attesa  e con l’augurio che lo Stato vari delle misure per il sostegno delle attività commerciali, è consigliabile inoltrare un’istanza ai proprietari degli immobili per chiedere la riduzione temporanea dei canoni di locazione. Il mio studio, infatti, si è immediatamente attivato in questo senso, contattando i locatori per giungere a degli accordi significativi e da registrare presso l’Agenzia delle Entrate.

Il locatore è obbligato a ridurre il canone a semplice richiesta del conduttore?

No, nessuno può imporre al locatore di ridurre il canone, neanche difronte a una crisi come quella che si sta abbattendo nel nostro Paese a causa del diffondersi del Coronavirus. Proprio per questo, già nella fase di trattative sarebbe opportuno puntare su elementi specifici del rapporto: regolarità nei pagamenti dei canoni pregressi, possibilità di risoluzione del rapporto con conseguente difficoltà per il locatore a riaffittare l’immobile, ecc. Insomma, queste e altre questioni possono indurre il locatore ad acconsentire a una transitoria riduzione del canone di locazione.

Nel caso in cui il locatore si determinasse a ridurre il canone, è necessario un contratto scritto?

Si, ma deve essere redatto seguendo delle cautele e registrandolo presso l’Agenzia delle Entrate. Tutti questi accorgimenti, ed altri, sono necessari per evitare eventuali accertamenti da parte del Fisco.

Ci possono essere degli accertamenti fiscali?

Purtroppo capita spesso. Il Fisco calcola il reddito da fabbricati in virtù del canone annuo pattuito dalle parti nel contratto di locazione originariamente registrato. Proprio per tale ragione, suggerisco di utilizzare tutte le cautele di legge per fare in modo che il Fisco tenga conto dell’accordo di riduzione del canone e su quell’accordo determini le imposte dovute. Poco tempo fa, come studio, abbiamo ottenuto una sentenza favorevole in materia. Infatti, siamo riusciti a far annullare un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia che aveva totalmente ignorato, ritenendolo finanche irrilevante ai fini fiscali, un accordo di riduzione del canone di locazione (Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sentenza n. 15099/16/2017).

Per valutare se chiedere la temporanea riduzione del canone puoi compilare il modulo o chiamarci (Tel. 06.68.89.18.96)

Inesistente la notifica con il servizio “seguimi”

Non ci possono essere deroghe: la notifica di un atto tributario deve seguire delle regole ben precise indicate dal legislatore, ciò a pena di nullità o di inesistenza della notifica stessa per buona pace dell’atto che si intende far pervenire nella sfera di conoscenza del contribuente.

In ambito fiscale le regole auree sono fissate sia dall’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 e sia dalle norme contenute nel codice di procedura civile (art. 137 e ss.).

Una regola fondamentale, disciplinata al cit. art. 60, è che  la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario, salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie; è comunque facoltà del contribuente eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti.

Qualora il contribuente abbia attivato il servizio “seguimi” di Poste Italiane (di natura contrattuale e finalizzato a far pervenire la corrispondenza all’indirizzo indicato dal richiedente), l’indirizzo indicato dalle Poste e individuato per il servizio non si può equiparare quale domicilio eletto ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973.

Infatti:

l’attivazione del servizio “seguimi” non assume alcuna rilevanza giuridica ai fini della validità delle notificazioni, nè l’indicazione di un indirizzo al quale recapitare la corrispondenza può assurgere ad elezione di domicilio ai sensi del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. d), difettando i requisiti formali prescritti dalla citata disposizione (Cass. sent. n. 31479/2019).

La conclusione inevitabile cui giunge il giudice di legittimità è la dichiarazione di inesistenza della notifica effettuata presso l’indirizzo indicato con il servizio “seguimi” poiché effettuata in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60; né può reputarsi sanata dal raggiungimento dello scopo in mancanza di elementi atti a far ritenere che i plichi siano stati comunque consegnati

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Accertamento catastale nullo! Vince lo Studio Legale Sgrò

Riferimenti:

  • 1, comma 335, legge n. 311/2004;
  • Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sentenza n. 5664/5/2018;
  • Corte di Cassazione, sentenza n. 16631/2018.

La questione ormai è ben nota: trattasi di accertamenti catastali attraverso i quali l’Agenzia delle Entrate – Territorio ha modificato la classe e la relativa rendita delle unità immobiliari ai sensi dell’art.1, comma 335, della Legge n°311/2004.

In alcuni articoli pubblicati sul mio sito, infatti, ho più volte lamentato che detti accertamenti sono privi di una valida motivazione poiché si limitano a indicare le norme per le quali si è inteso procedere alla riclassificazione dell’intera microzona ove è ubicato l’immobile oggetto di accertamento, anziché indicare le caratteristiche intrinseche ed estrinseche dell’unità immobiliare che hanno portato l’Ufficio ad aumentare la classe catastale.

In altri termini l’Ufficio ha l’obbligo di esporre i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato il ri-classamento e tale obbligo non può risolversi nella mera elencazione di norme che si ritengono astrattamente applicabili, ma deve far conoscere al contribuente in modo specifico quali elementi sono stati oggetto di valutazione.

Nella causa vinta dallo Studio Sgrò, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con sentenza n. 5664/5/2018, ha riconosciuto l’assoluto difetto di motivazione dell’avviso di accertamento catastale per due ordini di ragioni.

Il primo profilo trae origine dall’importante circostanza che l’unità immobiliare in passato (anno 2004) era stata oggetto di revisione della classe catastale da cui era sorto un contenzioso tributario culminato con l’annullamento dell’atto per illegittimità dello stesso. Sentenza non appellata dall’Ufficio e, dunque, passata in giudicato. Ebbene, secondo la Commissione Tributaria Regionale, il predetto precedente giudiziario non impedisce all’Ufficio di modificare successivamente la classe catastale purché vi siano fatti sopravvenuti e questi siano specificatamente indicati nell’avviso di accertamento notificato al contribuente. In caso contrario, come eccepito nel ricorso in appello dallo Studio Legale Sgrò, l’avviso di accertamento catastale deve essere dichiarato nullo per palese difetto di motivazione.

Altro profilo di illegittimità scrutinato dal Collegio di secondo grado è il difetto di motivazione perché l’Ufficio, benché obbligato, non ha chiarito nel proprio atto a cosa sia dovuto il mutamento della microzona accertata. Inoltre, la modifica della classe e la relativa rendita catastale deve dar conto al contribuente dei caratteri edilizi del fabbricato nonché la qualità urbana del contesto nel quale è inserito l’immobile e la qualità ambientale.

In punto, recentemente si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la  sentenza n. 16631/2018 con cui ha sancito il seguente principio di diritto: “non può ritenersi congruamente motivato il provvedimento di riclassamento che faccia esclusivamente riferimento al rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale nella microzona considerata rispetto all’analogo rapporto sussistente nell’insieme delle microzone comunali, e al relativo scostamento ed ai provvedimenti amministrativi a fondamento del riclassamento, allorché da questi ultimi non siano evincibili gli elementi (come la qualità urbana del contesto nel quale l’immobile è inserito, la qualità ambientale della zona di mercato in cui l’unità è situata, le caratteristiche edilizie del fabbricato) che, in concreto, abbiano inciso sul diverso classamento”.

In definitiva, a seguito della Pronuncia favorevole il contribuente ha potuto ottenere in sede giudiziaria la nullità della classe e della rendita catastale accertata e il ripristino della precedente situazione. Ora, spetterà al contribuente chiedere il rimborso delle somme versate nel frattempo a titolo di Imu su parametri dichiarati illegittimi.

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Notifica al portiere dell’atto tributario è valida?

Partiamo dal dato normativo: ai sensi del D.P.R. n. 600/ 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis) e dell’art. 139 c.p.c. in assenza del destinatario e in mancanza delle persone abilitate a ricevere l’atto (ricordiamolo: persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace), questo potrà essere consegnato al portiere o al vicino di casa. In entrambi i casi, detti soggetti dovranno sottoscrivere una ricevuta e l‘ufficiale giudiziario darà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione, a mezzo di lettera raccomandata.

Il primo adempimento dell’agente notificatore è quello di indicare nella relazione di notificazione, oltre che l’assenza del destinatario, di aver svolto invano le ricerche delle altre persone abilitate a ricevere l’atto, secondo la successione preferenziale indicata all’art. 139 c.p.c.

La Suprema Corte non ammette negligenze al riguardo, pena la nullità dell’atto che si vuole notificare:

in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto; ed il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 c.p.c., comma 2, secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. Ne discende che deve ritenersi nulla la notificazione nelle mani del portiere, allorquando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga – come nel caso di specie – l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma succitata (Cass. sent. 3732/2019).

Ma non è solo questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 3732/2019, in quanto, il giudice di legittimità, confermando un suo precedente e consolidato orientamento, ha altresì affermato che non è sufficiente ai fini della validità della notifica aver dato atto delle vane ricerche delle persone indicate dalla norma, in quanto ulteriore e necessario adempimento è quello di inviare al destinatario, mediante raccomandata, l’avviso che l’atto è stato consegnato al portiere. L’omesso invio è causa di nullità della notifica:

Il tenore letterale della disposizione configura la raccomandata informativa come un adempimento essenziale del procedimento di notifica.

La Corte di Cassazione attesta così la necessaria e fondamentale funzione dell’avviso all’interno della struttura di notificazione di un atto tutte le volte in cui deve essere consegnato a persona diversa dal destinatario. Si esige, in questo caso, un quid pluris costituito proprio dalla spedizione dell’ulteriore avviso, tenuto conto della posizione del destinatario dell’atto, che rispetto alla consegna diretta nelle proprie mani, ha un grado minore di possibilità di prendere effettiva conoscenza dell’atto.

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Notifica agli eredi degli atti tributari

  • Art. 65, comma 2, del D.P.R. n°600/1973;
  • Corte di Cassazione, sentenza n°228/2014;
  • Corte di Cassazione, sentenza n°26718/2013

Una delle eccezioni che spesso viene formulata nelle aule giudiziarie è la mancata notifica agli eredi dell’avviso di accertamento o della cartella di pagamento relativa alla posizione tributaria del defunto, (ricordiamo che in materia vige il principio di responsabilità solidale degli eredi se l’obbligazione è sorta prima della morte del de cuius). In verità, sul punto, la normativa appare di chiara interpretazione.

Difatti, l’art.65, secondo comma, del D.P.R. n°600/1973 dispone che gli eredi sono tenuti a comunicare “all’Ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale. La comunicazione può essere presentata direttamente all’ufficio o trasmessa mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso si intende fatta nel giorno di spedizione”. In caso di mancata comunicazione gli atti verranno notificati agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio del defunto.

Con la sentenza n°228/2014, la Corte di Cassazione, in materia di notifica della cartella di pagamento, ha ribadito che “la formazione del ruolo, disciplinata dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, va operata al nome del contribuente, pur dopo il suo decesso, mentre per la notificazione della cartella esattoriale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, la stessa va notificata agli eredi personalmente e nel loro domicilio solo ove essi abbiano dato tempestiva comunicazione del decesso del contribuente utilizzando le forme previste dall’art. 65, potendosi diversamente operare la notificazione agli eredi collettivamente ed impersonalmente nel domicilio del defunto, senza limiti di tempo (Cass. 5411/1988; Cass. 3415/2009; Cass. 15417/2009 …)”

In sintesi, ai sensi dell’art.65 del D.P.R. n°600/1973, l’Agenzia delle Entrate potrà procedere alla notifica di un avviso di accertamento nei confronti di un contribuente deceduto in due diversi e alternativi modi:

  • se gli eredi hanno comunicato il decesso del de cuius e il loro nominativo e domicilio fiscale, l’avviso dovrà essere notificato proprio agli eredi personalmente e nominativamente;
  • se la comunicazione è stata omessa l’Agenzia potrà notificare l’atto impositivo nell’ultimo domicilio del de cuius ma diretto agli eredi collettivamente e impersonalmente e tale notifica sarà efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui sopra.

Si segnala inoltre la sentenza n°26718/2013 della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la nullità insanabile di un atto notificato nei confronti del defunto ai sensi dell’art. 140 c.p.c. non avendo gli eredi provveduto alla comunicazione prescritta dall’art 65 del D.P.R. n° 600/1973, poiché la morte del destinatario non è equiparabile alla sua irreperibilità o al rifiuto di ricevere copia dell’atto.

La dichiarazione dei redditi può essere modificata in giudizio?

Domanda: può il contribuente rettificare la propria dichiarazione dei redditi in sede giudiziaria?

Riferimenti:

– Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n° 17757/2016;

– Corte di Cassazione, sentenza n° 29555/2017.

Nella redazione della dichiarazione dei redditi può accadere che il contribuente o il professionista che lo assiste nella compilazione dell’atto da trasmettere al fisco, incorra in errori dovuti a distrazione od omissioni che incidono nella corretta determinazione del tributo. Si parla in questi casi di lapsus calami, ovvero errori dovuti alla fretta o alla distrazione.

Detti errori, per rispondere alla domanda iniziale, possono sicuramente essere corretti anche in fase contenziosa innanzi le Commissioni Tributarie.

Invero, il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n° 17757/2016) è che il contribuente in sede contenziosa può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria.

Difatti, la dichiarazione dei redditi presentata al fisco nei termini di legge costituisce una mera esternazione di scienza che può sempre essere emendata in sede contenziosa poiché il processo tributario è il luogo deputato e privilegiato affinché la posizione del contribuente, quale titolare di diritti soggettivi perfetti derivanti dalla legge nazionale e dal diritto dell’UE, possa essere tutelata nel quadro della giusta imposizione fiscale.

Non si dimentichi, poi, che l’art. 10 dello Statuto del Contribuente impone che i rapporti tra contribuente e fisco siano improntati al principio di collaborazione e buona fede.

Il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite è stato recentemente ribadito dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n° 29555/2017. Invero i giudici di legittimità si sono espressi nel senso che “va riconosciuta la possibilità per il contribuente, in sede contenziosa, di opporsi alla pretesa tributaria azionata dal fisco – anche con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato allegando errori od omissioni incidenti sull’obbligazione tributaria, indipendentemente dal termine per la presentazione e la rettifica della dichiarazione fiscale”.

Attenzione a Google…

Nulla è più come prima: i Comuni possono utilizzare alle base dei loro accertamenti i dati o le immagini pubblicate su internet.

Questo è ciò che emerge dalla recentissima pronuncia n. 308/2020 della Corte di Cassazione che ha dato il proprio placet alle Amministrazioni pubbliche di fondare gli accertamenti tributari mediante l’uso di immagini scaricate da internet.

Il caso trae origine da un avviso di accertamento dell’imposta pubblicitaria emesso dal Comune abruzzese di Pineto basato esclusivamente su delle foto tratte da Google Street View (l’applicazione “gemella” di Google Maps) ove era ben visibile un veicolo di proprietà del ricorrente contenente messaggi pubblicitari non dichiarati.

L’argomentazione del giudice di legittimità è semplice:

Va osservato che la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che la fotografia costituisce prova precostituita della sua conformità alle cose e ai luoghi rappresentati, sicchè chi voglia inficiarne l’efficacia probatoria non può limitarsi a contestare i fatti che la parte che l’ha prodotta intende con essa provare, ma ha l’onere di disconoscere tale conformità. (Cass.  308/2020)

La questione non è di poco conto poiché secondo il costante orientamento del giudice di legittimità  il disconoscimento non può essere generico,  ma deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (tra le tante pronunce: Cass. sent. n. 24613/2019).

Spetta al contribuente, dunque, confutare la veridicità di quanto emerge dal “servizio fotografico”, anche quando scaricato da siti internet, prodotto in giudizio da parte dell’ente impositore e ciò anche attraverso delle presunzioni.

In casi come questi,  a parer mio, occorre puntare non tanto sul valore probatorio delle foto, principio ormai assodato in sede di giurisprudenza di legittimità, ma sul fatto che i riscontri fotografici in questione non potevano mai assicurare la certezza della data del rilevamento. Come “agganciare” quelle foto agli anni oggetto d’imposta? Questo probabilmente sarebbe stato un argomento valido che avrebbe fatto vacillare notevolmente la tesi probatoria del Comune.

Ma a parte ciò, quello che emerge, ed è veramente interessante, è che siamo difronte a un nuovo modo di condurre le attività istruttorie e le successive fasi di accertamento da parte degli enti impositori. Ciò, ovviamente, non riguarda solo i Comuni, ma anche l’Agenzia delle Entrate che può facilmente ricostruire alcuni movimenti mediante un esame dei nostri profili social che, all’evenienza, possono far ingresso in sede giudiziaria.

Signori, siamo avvertiti: nulla è più come prima!

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Rottamazione della cartella di pagamento

Non vi è dubbio che la pace fiscale sia allettante, ma prima però di aderire alla rottamazione occorre prendere delle importanti cautele per non rischiare di pagare molto di più del dovuto.

PRIMA REGOLA – CONTROLLA LA NOTIFICA

DEVI verificare che tutte le cartelle che intendi rottamare siano state correttamente notificate. A tal proposito, occorre recarsi presso uno degli sportelli dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, farsi fare un estratto conto della posizione debitoria e per ciascuna cartella indicata nell’estratto chiedere la RELATA DI NOTIFICA. La relazione di notificazione serve a capire se effettivamente quella cartella di pagamento è stata correttamente notificata (seguendo la normativa in materia di notifica). Infatti, qualora dovesse emergere che una o più cartelle non siano state correttamente notificate, il contribuente potrà adire l’autorità giudiziaria per chiedere la nullità della cartella mai notificata.

SECONDA REGOLA – ATTENTI ALLE CARTELLE GIA’ PRESCRITTE

Secondo aspetto da non sottovalutare è l’intervenuta prescrizione dei tributi o imposte recate nella cartella di pagamento che si intende rottamare. Molte volte, infatti, si è propensi a versare le somme al fisco senza fare questa importante e preliminare verifica.
Se il credito è relativo alla Tariffa Rifiuti, ai contributi previdenziali INPS, alle sanzioni amministrative (multe), il termine prescrizionale è di 5 anni, se invece si tratta di bollo auto il termine è di 3 anni e così via.
Discorso più complesso è quello relativo all’IRPEF – IRAP e IVA che ho avuto modo di approfondire in alcuni articoli pubblicati in alcune riviste specializzate e sul mio sito.
Ad ogni modo, per conoscere con precisione quali sono i termini di prescrizione e da quando decorrono vi consiglio di rivolgervi a un esperto in materia tributaria.
Nel caso in cui tra la notifica dell’avviso di accertamento e quella della cartella sia decorso il termine prescrizionale non vi rimane che chiedere l’annullamento della cartella davanti al giudice. (ATTENZIONE: la prescrizione è una eccezione giudiziale e, pertanto, la questione può essere risolta solo davanti all’autorità giudiziaria).

Queste sono solo alcune delle accortezze che conviene prendere prima di aderire alla rottamazione ter al fine di evitare di versare delle somme in realtà non dovute.

Pertanto, per rispondere alla domanda iniziale se la rottamazione sia effettivamente conveniente occorrerà prima verificare, magari con il prezioso aiuto di un esperto in materia (che non è il vicino di casa idraulico o il proprio cugino elettricista!) che le somme richieste siano realmente dovute.

Esempi di giudizi recenti trattati dallo Studio:
Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sentenza n. 5093/19/2018: ha annullato un’intimazione di pagamento e tutte le iscrizioni a ruolo recate nell’atto perché in giudizio è emersa l’omessa notifica da parte dell’Agenzia di molteplici cartelle di pagamento;
Giudice di Pace di Roma, sentenza n. 20105/2018: annullate diverse cartelle di pagamento per omessa notifica delle stesse;
Giudice di Pace di Roma, sentenza n. 40977/2018: annullate ben 20 cartelle di pagamento per intervenuta prescrizione delle somme iscritte nei ruoli impugnati;
Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sentenza n. 18363/32/2018: dichiarato illegittimo un pignoramento presso terzi per omessa notifica di diverse cartelle di pagamento e avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate.

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Attenzione alla notifica della cartella di pagamento

 – art. 60, lett. e), D.P.R. 600/1973;

– art. 140 c.p.c.

– Corte di Cassazione, sentenza n. 8298/2018

Nella mia esperienza in materia tributaria posso certamente affermare che una delle cause di maggiore contestazione davanti alle Commissioni Tributarie è l’omessa notifica della cartella di pagamento.

Difatti, molto spesso il contribuente, si reca presso il nostro studio dopo aver ricevuto un’intimazione di pagamento da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, sostenendo che “mai e poi mai” gli sono state notificate le cartelle indicate nell’atto. Lo stesso dicasi qualora si faccia un estratto conto presso gli uffici dell’Agente della Riscossione.

Che fare in questi casi?

La risposta è semplice. Qualora vi siano dubbi sulla notifica di una cartella di pagamento (o solo sulla correttezza della procedura seguita dall’Agente della Riscossione) occorre accedere presso i preposti uffici  dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione e chiedere copia delle relazioni di notificazione.

In molti casi, a seguito di detto controllo, abbiamo potuto constatare che la notifica è avvenuta, illegittimamente, attraverso il rito dell’irreperibilità assoluta. In sostanza, il messo notificatore nella relata di notifica dichiara di non aver potuto consegnare la cartella di pagamento nelle mani del destinatario poiché il vicino di casa o il portiere hanno affermato che il contribuente si era trasferito in altra abitazione. Pertanto, in questo caso, ai sensi dell’art. 60, lett e), del D.P.R. n. 600/1973, il messo notificatore è tenuto solo a depositare la cartella di pagamento presso il Comune e affiggere l’avviso di avvenuto deposito presso l’albo pretorio.

Spesso, questo modo di operare non è legittimo, in particolare nell’ipotesi in cui il contribuente, certificato di residenza alla mano, non si sia mai formalmente trasferito in altro luogo.

Si può contestare detta notifica?

La risposta è certamente positiva. Il contribuente potrà (anzi, dovrà) fare opposizione in sede giudiziaria avverso l’intimazione di pagamento o avverso l’iscrizione a ruolo per omessa notifica della cartella di pagamento.

Difatti, per costante e granitico orientamento della Corte di Cassazione e della giurisprudenza di merito, il messo notificatore prima di procedere a notificare un atto con la procedura degli irreperibili assoluti deve effettuare le verifiche anagrafiche per accertarsi che:

  1.  il contribuente effettivamente si sia trasferito in un diverso comune;
  2.  che non si tratti di una mera assenza temporanea del destinatario.

In sostanza la semplice circostanza che il contribuente non sia stato reperito dall’agente notificatore in occasione di un accesso, anche se il portiere o il vicino di casa hanno dichiarato l’avvenuto trasferimento, non è di per sé tale da integrare una condizione di irreperibilità assoluta.

Invero, la semplice assenza temporanea del destinatario dalla propria abitazione non giustifica la procedura di irreperibilità assoluta bensì di quella relativa. Infatti, in quest’ultimo caso l’agente notificatore  deve depositare la cartella di pagamento presso la casa comunale e al contempo inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno per informare il contribuente dell’avvenuto deposito.

La differenza è fondamentale perché solo con la ricezione della ricevuta di ritorno si sarebbe perfezionata la notifica al contribuente della cartella di pagamento.

Sul punto la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8298/2018 non ha dubbi: è illegittima la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi (nella specie, cartella di pagamento) effettuata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e), laddove il messo notificatore abbia attestato la sola irreperibilità del destinatario nel Comune ove è situato il domicilio fiscale del contribuente, senza ulteriore indicazione delle ricerche compiute per verificare che il trasferimento non sia un mero mutamento di indirizzo all’interno dello stesso Comune, dovendosi procedere secondo le modalità di cui all’art. 140 c.p.c. quando non risulti un’irreperibilità assoluta del notificato all’indirizzo conosciuto, la cui attestazione non può essere fornita dalla parte nel corso del giudizio“;

Breve consiglio: prima di versare le somme richieste dal Fisco è sempre bene verificare che la procedura seguita dall’Agente della Riscossione o dall’ente impositore sia corretta.

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Prescrizione dei contributi Inps

Una domanda ormai ricorrente da parte delle persone che si rivolgono presso il mio studio per trovare una soluzione alle loro problematiche è la seguente: “ma in quanto tempo si prescrivono i contributi previdenziali INPS?

Ebbene a rispondere è l’art. 3, comma 9, della L. n°335/1995  che prescrive “Le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini di seguito indicati:

  1. a) dieci anni per le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie, compreso il contributo di solidarietà previsto dall’articolo 9-bis, comma 2, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° giugno 1991, n. 166, ed esclusa ogni aliquota di contribuzione aggiuntiva non devoluta alle gestioni pensionistiche. A decorrere dal 1° gennaio 1996 tale termine è ridotto a cinque anni salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti;
  2. b) cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria”.

Dunque, il termine prescrizionale è di 5 anni!

Tuttavia, un problema fino a oggi molto dibattuto in sede giudiziaria è stato quello dell’applicabilità o meno della prescrizione quinquennale anche in caso di notifica di una cartella di pagamento non impugnata dal contribuente.

La questione è stata definitivamente risolta dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n°23397/2016, la quale ha riconosciuto l’operatività della prescrizione quinquennale di cui all’art.3, comma 9, della L. n°335/1995, anche a seguito della notifica di una cartella di pagamento non opposta. Difatti, la Suprema Corte ha chiarito che l’omessa impugnazione di un provvedimento accertativo o di una cartella di pagamento non può concedere, all’atto in oggetto, di acquistare “efficacia di giudicato”, giacché i citati atti sono “espressione del potere di auto accertamento e di autotutela della P.A.”.

Per tale ragione, l’inutile decorso del termine perentorio per proporre opposizione, non produce effetti di ordine processuale con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione.

Nelle fattispecie aventi ad oggetto contributi I.N.P.S., la mancata opposizione alla cartella di pagamento, non converte il termine di prescrizione quinquennale in quello decennale, non potendosi configurare la cartella quale titolo giudiziale definitivo.

Il principio, del resto, è stato recentemente confermato dalla sentenza n. 27194/2018 della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la legittimità a ricorrere in sede giudiziarie e far valere la prescrizione quinquennale anche avverso un’intimazione di pagamento notificata dall’Agenzia della Riscossione oltre il termine quinquennale dalla notifica della precedente cartella esattoriale.

Attenzione: la competenza giudiziaria è del Tribunale Civile, Sezione Lavoro e non la Commissione Tributaria.

Avv. Alessandro Sgrò

Illegittimo l’avviso di accertamento IMU del Comune di Anguillara Sabazia

Di recente mi sono trovato a dover gestire alcune cause, in sede tributaria, in merito alla legittimità di alcuni avvisi di accertamento IMU emessi dal Comune di Anguillara Sabazia. Si tratta, infatti, di terreni considerati dall’amministrazione comunale quali aree edificabili, anziché terreni agricoli. La qualificazione data dal Comune, però, non risponde alla reale situazione dei terreni che risultano a tutti gli effetti all’interno di una zona agricola.

Proprio per tale ragione ho consigliato al mio assistito di proporre ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma.  Le eccezioni sollevate dal contribuente riguardano diversi profili inerenti all’illegittimità dell’avviso di accertamento IMU.

Difetto di motivazione.

In via preliminare, abbiamo eccepito la nullità dell’avviso di accertamento per palese difetto di motivazione. Infatti, l’amministrazione comunale ha individuato in € 12/mq il valore dei terreni senza indicare al contribuente come si sia pervenuti alla determinazione di detto valore e in che modo si è data applicazione al dettato normativo di cui all’art. 5 del D.lgs. n. 504/1992.

Invero, detta norma con riferimento alle aree fabbricabili dispone che “il valore è costituito da quello venale in comune commercio al 1° gennaio dell’anno di imposizione,  avendo  riguardo alla zona territoriale di  ubicazione, all’indice  di  edificabilità,  alla destinazione  d’uso  consentita,  agli  oneri  per   eventuali   lavori   di adattamento del  terreno  necessari  per  la  costruzione,  ai  prezzi  medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche”.

Zona agricola o edificabile?

Nel merito, invece, abbiamo eccepito l’importante circostanza che il certificato di destinazione urbanistica  indicava i terreni ricadenti in zona agricola in virtù del P.R.G. del 26/7/1978. Infatti, a nulla vale la successiva Variante Generale al P.R.G., adottata con Delibera n°48 del 23/12/2006, che ha assoggettato detti terreni all’interno della Zona C2 – espansione residenziale priva di riqualificazione – atteso che detto provvedimento nell’anno 2011 è decaduto (trascorsi 5 anni) per mancata approvazione da parte della Regione Lazio.

La sentenza n. 5479/16/2019 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma.

La Commissione Tributaria Provinciale di Roma con la sentenza n. 5479/16/2019 ha accolto il ricorso proposto dal mio studio, annullando l’avviso di accertamento IMU  per un palese difetto di motivazione dell’atto e, contestualmente, condannando il Comune al pagamento di € 1.500,00 di spese processuali.

In particolare i Giudici capitolini hanno accolto il ricorso perché l’Amministrazione comunale ha applicato un valore venale non contemplato nella delibera della Giunta comunale n. 51/2007, il cui estratto è stato accluso all’avviso di accertamento opposto, limitandosi, per il resto, a riportare una mera elencazione di norme astrattamente applicabili e generiche, che costituiscono stereotipate motivazioni valevoli per qualsiasi atto.

Dunque è stata accolta la questione preliminare del difetto di motivazione.

Ma quid iuris in merito alla corretta qualificazione dei terreni?

Sul punto ci soccorre la recentissima sentenza n. 2477/16/2019 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma che, seppur laconicamente, qualifica le aree oggetto di contenzioso quali aree agricole. Infatti secondo la Commissione giudicante non può trovare applicazione la Variante Generale al P.R.G., adottata con Delibera n°48 del 23/12/2006 che ha assoggettato detti terreni all’interno della Zona C2 – espansione residenziale priva di riqualificazione.

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Cartella di pagamento consegnata a un “familiare convivente”. La notifica è valida?

Vi è un principio ormai consolidato in giurisprudenza: la notifica di un atto tributario (avviso di accertamento – cartella di pagamento, intimazione, fermo amministrativo ecc.) è valida anche se è stato consegnato nel luogo di residenza del destinatario a mani di “persona di famiglia”.In tali casi, infatti, spetta al contribuente, qualora volesse contestare la notifica, fornire la prova che la persona che ha materialmente ritirato l’atto non appartiene al nucleo familiare.

Opera la c.d. presunzione di conoscenza dell’atto. E’, del resto, ragionevolmente pensare che le persone legate da stretti rapporti di parentela, che  per varie ragioni si trovino all’interno dell’abitazione di residenza del contribuente, consegnino a loro volta il plico o l’atto al suo destinatario.

Consegna a persona di famiglia in luogo diverso dalla residenza del destinatario

C’è comunque un caso in cui non opera la presunzione di ricezione. Ciò avviene quando  l’atto è stato consegnato a persona di famiglia (coniuge in sede di separazione personale)  in luogo che non corrisponde all’indirizzo di residenza anagrafica del contribuente.

I principi di diritto della Corte di Cassazione

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la qualifica di “familiare convivente”, che si legge nella relazione di notifica,  può essere superata dalla prova contraria fornita dal ricorrente di risiedere in luogo diverso da quello in cui è stata eseguita la notificazione.

Non è sufficiente  che la persona cui sia stato consegnato un atto sia in rapporti di parentela con il destinatario dovendo, invece, trattarsi di persona di famiglia o addetta alla casa, di persona cioè a lui legata da un rapporto di convivenza che, per la costanza di quotidiani contatti, dà affidamento che l’atto sia portato a sua conoscenza (Cassazione sentenza n. 10543/2019).

Validità delle attestazioni dell’agente postale

Ai fini della validità della notificazione, la parentela e la convivenza tra destinatario dell’atto e consegnatario (quest’ultimo dichiaratosi, nella specie, “familiare convivente”) non possono presumersi dall’attestazione dell’agente postale, che fa fede solo delle dichiarazioni a lui rese, non anche dell’intrinseca veridicità del relativo contenuto. Pertanto, il destinatario che produce a confutazione di tale veridicità un certificato storico di residenza, non è tenuto a fornire ulteriore prova (come l’impossibile prova del fatto negativo circa l’assenza di ogni relazione di parentela e convivenza col consegnatario dell’atto).

Ebbene, in estrema sintesi, ciò che conta ai fini della validità della notifica è sempre il luogo di residenza del destinatario dell’atto. Se l’atto è consegnato  a persona di famiglia  in un luogo diverso dalla residenza del destinatario, l’atto deve considerarsi come mai notificato.

Consiglio

Controlliamo sempre la notifica degli atti tributari prima di effettuare i pagamenti o rottamare i tributi!

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La causa di forza maggiore nelle c.d. agevolazioni prima casa.

In tema di imposta di registro, l’art. 2 del D.L. n 118/1985  dispone che per ottenere i benefici c.d. prima casa, previsti in caso di acquisto di immobile in altro Comune, il compratore deve trasferire la propria  residenza entro il termine di diciotto mesi dall’acquisto.

E se dovessero esservi degli ostacoli al trasferimento?

Vi sono però dei casi in cui il mancato stabilimento nei termini di legge della residenza non comporta la decadenza dall’agevolazione. Ciò avviene solo quando l’eventuale ostacolo al trasferimento della residenza non sia riconducibile alla parte obbligata e sia caratterizzato dall’inevitabilità e imprevedibilità dell’evento.

Casi in cui è possibile invocare la causa di forza maggiore.

E’ legittimo invocare la causa di forza maggiore quando l’acquirente non ha potuto trasferire la residenza nell’immobile acquistato perché quest’ultimo risulta illegittimamente occupato da parte di un terzo. Ciò che si deve tutelare è la legittima aspettativa dell’acquirente all’immediato rilascio dell’immobile tanto che  le vicende successive all’invito al rilascio e i conseguenti atti di resistenza ben configurano la forza maggiore.

E’, dunque, illegittimo un provvedimento dell’Agenzia che neghi il beneficio delle agevolazioni per la prima casa oggetto di occupazione da parte di terzi poiché l’occupazione deve essere considerata un evento non prevedibile, inaspettato e sovrastante la volontà del contribuente di abitare nella prima casa entro il termine previsto dalla legge.

Questo è il recentissimo e corretto orientamento della Corte di Cassazione in materia di forza maggiore rapportata al diritto alle agevolazioni per la prima casa (Cass. sent. n. 10936/2019).

In sostanza, non può considerarsi perentorio il termine di diciotto mesi per il trasferimento della residenza nella nuova abitazione quando vi è in corso un’azione per liberare l’immobile da un’occupazione abusiva ( lo stesso principio vale anche per uno sfratto) in quanto siamo difronte a una causa di forza maggiore e, in quanto tale, tutelata dal nostro ordinamento giuridico (si veda anche Cass. Sent. n. 25437/2015).

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Notifica del preavviso di fermo amministrativo

La risposta è positiva.

Infatti, la Corte di Cassazione con l’ordinanza  n. 5469/2019 ha stabilito che il preavviso di fermo è un atto con cui il creditore fa valere il suo diritto al pagamento. E’, in sostanza, un atto funzionale a portare a conoscenza del debitore la pretesa dell’Amministrazione Finanziaria (Cass. n. 22018/2017; Cass. 26052/2011).

CONTENUTO INFORMATIVO DELL’ATTO

Proprio per il suo contenuto informativo della pretesa tributaria, a parere della Corte di Cassazione, l’atto è  idoneo a interrompere la prescrizione; ma esso vale anche come richiesta di pagamento, a garanzia della quale si avvisa che sarà iscritto il fermo, in caso di inadempimento.

Infatti il preavviso di fermo ha la funzione di comunicare al presunto debitore che se non verserà le somme di cui alle cartelle di pagamento o avvisi di accertamento, entro 30 giorni,  si procederà al fermo del veicolo.

DEVE ESSERE PRECEDUTO DALLA NOTIFICA DI UN’INTIMAZIONE DI PAGAMENTO?

Inoltre, secondo la Cassazione (ordinanza n. 22018/2017) , il preavviso di fermo amministrativo, essendo un atto funzionale a portare a conoscenza del debitore la pretesa dell’Amministrazione, non è inserito come tale nella sequenza procedimentale dell’espropriazione forzata; pertanto, il concessionario non deve provvedere alla preventiva notifica dell’avviso contenente l’intimazione ad adempiere l’obbligazione risultante dal ruolo D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 50, comma 2.

Detta  disposizione è, infatti, applicabile solo nel circoscritto ambito dell’esecuzione forzata.

In sintesi:

– il preavviso di fermo è un atto interruttivo della prescrizione;

– non necessita della preventiva notifica dell’intimazione di pagamento.

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Notifica dell’atto al contribuente temporaneamente assente

La risposta la troviamo nella recentissima ordinanza della Corte di Cassazione n. 5522/2019, oltre che  all’art. 140 c.p.c. e art. 60 del D.P.R. n. 600/1972.

Ebbene, la Corte precisa che la notifica di un atto o di un provvedimento può seguire due vie:

1. Se il destinatario è irreperibile, perché a esempio sono ignoti l’indirizzo e la residenza, si attua la procedura (c.d. irreperibilità assoluta) che non prevede l’invio della raccomandata a.r. ma il deposito dell’atto direttamente presso casa comunale dove doveva eseguirsi la notifica.

2. Se, invece, il destinatario è solo temporaneamente assente dalla propria residenza (c.d. irreperibilità relativa), la notifica deve avvenire a norma dell’art. 140 c.p.c..

In quest’ultimo caso l’agente notificatore deve:

a) depositare di copia dell’atto presso la casa comunale di residenza del destinatario;

b) affiggere l’avviso di deposito alla porta dell’abitazione o dell’ ufficio o dell’azienda del destinatario;

c) inviare al destinatario la comunicazione, con raccomandata A.R.,  che l’atto è stato depositato presso la casa comunale dove può recarsi per il ritiro.

Se non si esegue anche solo uno degli adempimenti appena indicati l’atto non può considerarsi notificato!

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, confermando un principio ormai consolidato in giurisprudenza,  ha stabilito che ai fini del perfezionamento della notifica di un atto tributario è necessario l’inoltro e l’effettiva ricezione da parte del destinatario della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione.

Consiglio:

Il principio espresso dalla Corte di Cassazione è da tenere sempre a mente, perché spesso l’Agenzia delle Entrate incorre in errori di questo tipo. Se avete dubbi chiedete in Agenzia una copia della relata di notifica dell’atto tributario e verificatela insieme al vostro professionista di fiducia.

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Rottamazione ter per il bollo auto, come fare?

Diciamo subito che anche le somme iscritte a ruolo per mancato pagamento del bollo auto possono essere rottamate.

C’è da dire che per i ruoli affidati alla riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010, il cui importo è inferiore a € 1.000,00, sono automaticamente stralciati dall’Agente della riscossione senza che il contribuente debba presentare alcuna istanza.

Se, invece, i ruoli sono più recenti, ( 2011 – 2017) il contribuente potrà accedere alla c.d. rottamazione ter, con l’ azzeramento delle sanzioni e degli interessi di mora.

La domanda  di adesione dovrà essere presentata entro il 30 aprile 2019.

Per quanto riguarda lo stralcio automatico delle cartelle fino a € 1.000,00, occorre fare riferimento ai “singoli carichi” affidati all’Agente della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010, anche se riferiti alle cartelle per le quali sia intervenuta la richiesta di rottamazione.

Facendo riferimento alla data di affidamento del carico, pertanto, sono ricompresi anche i soggetti destinatari di cartelle notificate nel 2011 ma con i ruoli formati nel 2010.

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Sospensione pignoramento presso terzi

E’ bene ricordarlo: prima di aderire alla c.d. rottamazione ter occorre prendere delle importanti cautele per non rischiare di pagare molto di più del dovuto.

Ebbene, se proprio non si può fare a meno di accedere alla rottamazione, allora è bene sapere che con la presentazione dell’istanza di adesione si sospendono anche le procedure di pignoramento presso terzi.

Secondo quanto disposto dall’articolo 3, comma 10, lett. d) ed e), D.L. 119/2018, infatti, a seguito della presentazione della dichiarazione di adesione alla “rottamazione-ter”, non possono essere avviate nuove procedure esecutive né possono essere proseguite le procedure esecutive precedentemente avviate, salvo che non si sia tenuto il primo incanto con esito positivo.

Pertanto, per effetto della presentazione della dichiarazione di adesione, anche le procedure di pignoramento presso terzi non possono proseguire e si estinguono a seguito del pagamento della prima (o unica rata) in scadenza al 31.7.2019.

Ovviamente, nel caso in cui non venga versata la prima rata di luglio, l’agente della riscossione non procede a nuova notifica dell’atto di pignoramento, limitandosi a comunicare al terzo la ripresa delle azioni esecutive inizialmente intraprese.

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Come si notifica un atto tributario agli eredi?

La risposta è affidata all’art. 65 del D.P.R.  n. 600/1973.

Secondo detta norma gli eredi, dopo la morte del loro caro, sono tenuti a comunicare all’Agenzia delle Entrate le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale recandosi all’Ufficio dove aveva il domicilio fiscale il de cuius oppure inviando una raccomandata a.r.

Se gli eredi non comunicano le loro generalità e il domicilio fiscale, l’Agenzia delle Entrate dovrà notificare gli atti tributari agli eredi “personalmente e collettivamente” presso l’ultimo domicilio del defunto.

ATTENZIONE: gli eredi sono obbligati, al pari del loro caro defunto, al versamento dei debiti tributari sorti prima del decesso. Non sono obbligati per le eventuali sanzioni amministrative che vengono irrogate!

In sintesi, ai sensi dell’art.65 del D.P.R. n°600/1973, l’Agenzia delle Entrate potrà procedere alla notifica di un avviso di accertamento/cartella di pagamento ecc. nei confronti di un contribuente deceduto in due diversi e alternativi modi:

– se gli eredi hanno comunicato il decesso del de cuius e il loro nominativo e domicilio fiscale, l’avviso dovrà essere notificato proprio agli eredi personalmente e nominativamente;

– se la comunicazione è stata omessa l’Agenzia potrà notificare l’atto impositivo nell’ultimo domicilio del defunto ma diretto agli eredi collettivamente e impersonalmente e tale notifica sarà efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui sopra.

E’ nulla la  notifica di un atto tributario notificato nei confronti del defunto ai sensi dell’art. 140 c.p.c. – trattasi di una procedura che si applica nei casi di temporanea assenza del destinatario – poiché la morte del destinatario non è equiparabile alla sua irreperibilità o al rifiuto di ricevere copia dell’atto.

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Agevolazione “prima casa”: rileva la residenza della famiglia

Riferimenti:

– Corte di Cassazione, sentenza n°25889/2015;

Davvero interessante è il recente orientamento da parte della Corte di Cassazione in materia di agevolazione della prima casa sotto il profilo della residenza anagrafica dei coniugi in regime di comunione dei beni.

Secondo i giudici di legittimità, con la recentissima sentenza n°25889/2015, il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui è del tutto irrilevante la diversa residenza del coniuge che ha acquistato in regime di comunione dei beni.

In sostanza, i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma reciprocamente alla coabitazione (art. 143 c.c.), quindi un’interpretazione della legge tributaria conforme ai principi del diritto di famiglia induce a considerare che la coabitazione con il coniuge costituisce un elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini tributari (Cass. n. 14237 del 2000), in quanto ciò che conta non è tanto la residenza dei singoli coniugi, quanto quella della famiglia.

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Cartella di pagamento? Ecco cosa fare…

A tutti noi è capitato di ricevere una cartella di pagamento da parte dell’Agenzia della Riscossione. Dopo l’inevitabile prima fase di sconforto occorre riacquisire lucidità e chiedersi “come posso uscirne?”.

C’E’ SEMPRE UNA SOLUZIONE!

Ebbene, iniziamo con il precisare che la cartella di pagamento è un atto che l’Agenzia delle Entrate – Riscossione notifica al contribuente qualora quest’ultimo si ritenga abbia omesso di versare delle somme agli enti creditori (Agenzia delle Entrate, Inps, Regioni, Comuni, ecc.) a titolo di sanzioni amministrative, contributi previdenziali, IMU, Tariffa rifiuti ecc.

La cartella di pagamento è un atto opponibile in sede giudiziaria entro dei termini brevi.

Il termine per ricorrere in sede giudiziale è essenzialmente legato al tributo indicato nella cartella di pagamento.

Ad esempio:

– se si tratta di sanzioni amministrative (multe) il ricorso dev’essere inoltrato al Giudice di Pace entro il termine perentorio di 30 giorni.

se, invece, si tratta di un bollo auto, Irpef, Iva, diritto annuale della Camera di Commercio, occorrerà proporre ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale entro 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento.

– se, invece, siamo difronte a contributi INPS occorrerà ricorrere entro 20/40 giorni davanti al Tribunale del Lavoro.

Trascorsi i termini appena indicati senza opposizione da parte del contribuente, l’Agenzia delle Entrate – Riscossione procederà con le azioni esecutive o cautelari (es. Fermo del veicolo, pignoramenti, ipoteche ecc..).

NON RIPONETE UNA CARTELLA DI PAGAMENTO NEL CASSETTO!

ALLORA, COSA FARE?

1) PRIMA DI TUTTO occorre verificare se in passato sono stati notificati degli avvisi di accertamento da parte degli enti creditori che intimavano il versamento delle somme dovute e ora contenute nella cartella che avete in mano (ad esempio: avviso di accertamento della Regione per il versamento del bollo auto; verbale della Polizia Municipale se si tratta di una contravvenzione ; avviso di accertamento dell’ Agenzia delle Entrate ecc..).

Infatti, prima della notifica di una cartella di pagamento gli Enti creditori devono notificare al contribuente un avviso di accertamento.

Leggete con attenzione la vostra cartella di pagamento, infatti nel dettaglio degli importi l’Agenzia della Riscossione è tenuta ad indicare il giorno in cui l’ente creditore ha notificato il precedente avviso di accertamento.

Se pensate di non aver ricevuto alcunché, vi consiglio comunque di recarvi presso gli uffici dell’Ente Impositore (Regione, Comune, Agenzia delle Entrate, Inps ecc..) e chiedere copia della relazione di notificazione dell’avviso di accertamento indicato nella cartella.

La relazione di notifica vi permette di comprendere se l’atto sia stato effettivamente recapitato al vostro indirizzo di residenza e chi, eventualmente, l’ha ritirato. Se ci sono errori nella notifica dell’avviso di accertamento ovvero quest’ultimo non risulta notificato, la cartella di pagamento è illegittima e, pertanto, potete presentare ricorso davanti alla competente autorità (entro i termini indicati sopra) per chiederne l’annullamento.

GLI ERRORI DI NOTIFICA SONO RICORRENTI PERTANTO FATE  ESAMINARE CON ATTENZIONE A UN PROFESSIONISTA LE RELATE CHE AVETE RITIRATO PRESSO GLI UFFICI

2) LA SECONDA COSA DA VERIFICARE  è che il debito recato nella cartella di pagamento non sia caduto in prescrizione (ACCADE MOLTO SPESSO!).

Se il credito è relativo alla Tariffa Rifiuti, ai contributi previdenziali INPS, alle sanzioni amministrative (multe), il termine prescrizionale è di 5 anni, se invece si tratta di bollo auto il termine è di 3 anni e così via.

Discorso più complesso è quello relativo all’IRPEF – IRAP e IVA che ho avuto modo di approfondire in alcuni articoli pubblicati in alcune riviste specializzate e sul mio sito.

Ad ogni modo, per conoscere con precisione quali sono i termini di prescrizione e da quando decorrono vi consiglio di rivolgervi a un esperto in materia tributaria.

Nel caso in cui tra la notifica dell’avviso di accertamento e quella della cartella sia decorso il termine prescrizionale non vi rimane che chiedere l’annullamento della cartella davanti al giudice. (ATTENZIONE: la prescrizione è una eccezione giudiziale e, pertanto, la questione può essere risolta solo davanti all’autorità giudiziaria).

3) LA TERZA COSA DA VERIFICARE è che la cartella contenga tutti gli elementi previsti dalla legge. Per quest’ultimo esame vi consiglio di rivolgervi ad un esperto in materia tributaria, l’unico che può valutare la sussistenza dei requisiti normativamente prescritti per le cartelle di pagamento.

Hai ancora dubbi? Compila il modulo e chiama allo 06.68.89.18.96.

Intimazione di pagamento annullata!Altra Vittoria dello Studio Legale Sgrò

Riferimenti:

  • Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sentenza n. 5093/19/2018;
  • Corte di Cassazione, sentenza n. 1532/2012.

La causa vinta dallo Studio Legale Sgrò aveva ad oggetto un’importante intimazione di pagamento notificata dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione, recante molteplici cartelle per le quali si contestava l’omesso versamento.

Il contribuente, con il ricorso presentato dall’avv. Alessandro Sgrò, ha da subito contestato l’illegittimità della pretesa dell’Agenzia delle Entrate per molteplici ragioni tra cui l’omessa notifica delle prodromiche cartelle di pagamento.

Con la sentenza n. 5093/19/2018, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, dava ragione alla difesa del contribuente, dichiarando l’illegittimità dell’intimazione impugnata e delle sottese cartelle di pagamento poiché l’Agenzia non aveva fornito in giudizio, benché costituita, la prova della loro corretta notifica.

Invero, il Collegio di primo grado rilevava che la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1532/12, confermando la relativa giurisprudenza ha ribadito che: “in materia tributaria, l ‘omessa notifica di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto successivo e per quanto interessa in ordine al profilo sollevato nell’odierno ricorso l ‘azione del contribuente, diretta a far valere la nullità detta, può essere svolta indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario alla riscossione (senza litisconsorzio necessario tra i due), essendo rimessa al concessionario, ove evocato in lite, la facoltà di chiamata nei riguardi dell’ente medesimo” (Cass. SS.UU. 16412/2007).

Nella citata sentenza la Cassazione aveva stabilito che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di atti, con le relative notificazioni, destinati a farla conoscere ai destinatari, per rendere possibile a questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa.

Da quanto sopra, emerge che il contribuente prima di chiedere delle rateazioni o aderire a definizioni agevolate del proprio presunto debito con l’Agenzia delle Entrate, farebbe molto meglio a vagliare la propria posizione debitoria, magari con l’ausilio di un occhio esperto, al fine di verificare se le somme sono effettivamente dovute oppure, come nel caso del nostro assistito, risultano del tutto illegittime!

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Iscrizioni a ruolo annullate: causa vinta dallo Studio Legale Sgrò.

Riferimenti:

  • Giudice di Pace di Roma, sentenza n. 20105/2018.
  • opposizione ex art. 615 c.p.c.

Il contribuente si era rivolto presso il nostro studio per un esame della propria posizione debitoria presso l’Agenzia delle Entrate .- Riscossione.

Dopo un attento studio degli estratti di ruolo e delle relate di notifica delle cartelle di pagamento, ci siamo subito accorti che molte somme iscritte nei ruoli non erano in alcun modo dovute.

Si è, dunque, deciso di intraprendere la strada giudiziale al fine di annullare definitivamente le pendenza presso l’agenzia delle Entrate – Riscossione, iscrivendo davanti al Giudice di Pace di Roma la causa di opposizione all’esecuzione.

Avevamo ragione!

Difatti, a seguito delle nostre difese e nonostante in giudizio si fosse costituita l’Agenzia delle Entrate, nonchè il Comune di Roma e la Prefettura, il Giudice di Pace, Dr.ssa Maria Pia Angela Pozzuoli, ha dichiarato l’illegittimità di molteplici cartelle di pagamento. Invero il Giudice ha ritenuto fondate le eccezioni sollevate dal contribuente circa l’omessa notifica delle cartelle di pagamento con intervenuta decadenza da parte dell’Agente della Riscossione a procedere in via esecutiva e condanna alle parti soccombenti delle spese di lite.

Del resto la Corte di Cassazione ha più volte ribadito il principio di diritto che: “in materia tributaria, l ‘omessa notifica di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto successivo e per quanto interessa in ordine al profilo sollevato nell’odierno ricorso l ‘azione del contribuente, diretta a far valere la nullità detta, può essere svolta indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario alla riscossione (senza litisconsorzio necessario tra i due), essendo rimessa al concessionario, ove evocato in lite, la facoltà di chiamata nei riguardi dell’ente medesimo” (Cass. SS.UU. 16412/2007).

Dunque, non v’è dubbio alcuno: la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di atti, con le relative notificazioni, destinati a farla conoscere ai destinatari, per rendere possibile a questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa.

Da quanto sopra, emerge che il contribuente prima di chiedere delle rateazioni o aderire a definizioni agevolate del proprio presunto debito con l’Agenzia delle Entrate, farebbe molto meglio a vagliare la propria posizione debitoria, magari con l’ausilio di un occhio esperto, al fine di verificare se le somme sono effettivamente dovute oppure, come nel caso del nostro assistito, risultano del tutto illegittime!

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Notifica della cartella di pagamento non a mani di un famigliare.

Riferimenti:

-art. 60 D.P.R. 600/1973;

– art. 139 c.p.c.

– Corte di Cassazione, sentenza n. 7638/2018;

– Corte di Cassazione, sentenza n. 26501/2014.

La normativa in materia di notifica degli atti tributari e della riscossione prevede come prima regola che l’atto debba essere consegnato a mani proprie del destinatario.

L’art. 139 c.p.c., inoltre, prevede che qualora l’agente notificatore non rinvenga il destinatario di un atto presso la propria abitazione, poiché momentaneamente assente, potrà consegnare l’atto tributario a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace.

Dal tenore letterale del cit. art. 139 c.p.c. non vi è alcun dubbio la persona cui si può consegnare l’atto in assenza del destinatario deve essere una persona di famiglia.

E’ pur vero che la giurisprudenza di legittimità ha ampliato sempre di più il concetto di “persona di famiglia” fino a ricomprendervi non solo i parenti ma anche gli affini ed ha escluso che sia implicito nella previsione codicistica che la “persona di famiglia” cui fa riferimento la norma citata debba convivere con il destinatario momentaneamente assente.

E’ anche vero, sempre per consolidato orientamento della Corte di Cassazione, che in caso di notificazione ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, la qualità di persona di famiglia di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire in giudizio la prova contraria e, in particolare, di provare l’inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità su indicate ovvero la occasionalità della presenza.

In sostanza, e per semplificare, se l’agente notificatore recatosi presso l’abitazione di Mario Rossi rinviene una persona fuori dalla cerchia familiare, stante la temporanea assenza del destinatario, non può consegnare l’atto alla persona che in quel momento si trovava presso l’abitazione sulla base di una mera convinzione di appartenenza alla famiglia del sig. Rossi.

Infatti, se ciò dovesse accadere, il contribuente avrebbe il diritto a contestare l’omessa notifica dell’atto poiché avvenuta al di fuori dallo schema normativo di cui all’art. 139 c.p.c., fornendo in sede giudiziale la prova che la persona cui è stato consegnato l’atto non appartiene alla propria cerca famigliare o di affini.

Invero, sul punto, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 26501/2014 ha espresso il seguente principio di diritto: il “rigore” nella individuazione delle categorie di soggetti ai quali è possibile, secondo la previsione normativa, consegnare l’atto da notificare in luogo del destinatario è dunque d’obbligo, ed è pertanto da escludere che, essendo intervenuta documentata contestazione da parte del notificatario, possa considerarsi rituale una notifica pacificamente effettuata non a mani di persona di famiglia bensì a mani di persona “che si comporta come tale”.

Breve consiglio: la notifica degli atti tributari è sempre un valido argomento di opposizione in sede giudiziale di successivi atti impositivi. Pertanto, prima di versare le somme richieste dal Fisco è sempre bene verificare che la procedura di consegna degli atti seguita dall’Agente della Riscossione o dall’ente impositore sia corretta.

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CTR di Roma: la cartella di pagamento deve essere correttamente motivata.

Riferimenti:

– Commissione Tributaria Provinciale di Roma sentenza n. 22734/2017.

Ogni atto tributario deve essere motivato poiché solo un’adeguata motivazione permette al cittadino di ricostruire correttamente la pretesa fiscale.

Non può costituire da salvagente, come avviene spesso in giudizio, la tesi della conformità della cartella di pagamento al modello ministeriale o direttoriale atteso che ciascun atto deve indicare in modo chiaro e intellegibile la pretesa fiscale.

Quanto sopra non ammette deroghe.

Con la pronuncia n°22734/2017, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma ha dichiarato la nullità di una cartella esattoriale per difetto di motivazione originato dalla mancanza di chiarezza nei contenuti e in particolare per omessa indicazione delle modalità di calcolo degli interessi applicati. Invero, secondo il Collegio romano nel momento stesso in cui il contribuente riceve una cartella esattoriale deve essere in grado di comprenderne causali e voci indicate, ed è il caso degli interessi applicati.

Sulle modalità di calcolo degli interessi si è pronunciata recentemente la Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 24933/2016, ha dichiarato nulla la cartella per omessa indicazione delle modalità di calcolo. Il principio fondamentale è che il contenuto della cartella deve risultare intellegibile al contribuente; qualora non fosse chiara la modalità di calcolo, la conseguenza sarà l’annullamento.

A una cartella esattoriale si applicano i tassi d’interesse legale, oltre gli interessi moratori in caso di pagamento oltre la scadenza dei sessanta giorni, senza contare che agli interessi che “maturano” dopo la notifica vanno aggiunti anche quelli che sono stati già applicati dall’Ente creditore all’atto della formazione del ruolo che è stato consegnato all’Agente di riscossione.

E’, dunque evidente, che se la cartella di pagamento o un’intimazione non indicano in modo chiaro come siano stati calcolati gli interessi applicati e la percentuale degli stessi, siamo difronte a una violazione dell’obbligo di motivazione sancito dall’art. 7 dello Statuto del Contribuente.

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CTR di Roma: Prescrizione di 5 anni anche per debiti erariali.

Riferimenti:

– Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sentenza n. 45/13/2018.

Chi ha avuto modo di legge qualche mio articolo sulla prescrizione delle imposte e dei tributi ha già ben chiaro che lo Studio legale Sgrò da sempre si batte per il riconoscimento della prescrizione quinquennale anche con riferimento alle imposte erariali. C’è da dire che la Corte di Cassazione sul punto non ha mai preso una posizione netta, lasciando alle Commissioni di merito il delicato compito di interpretare non solo la normativa sulla prescrizione ma anche alcune  proprie criptiche pronunce. Se questo è il quadro entro cui doverci muovere è facile immaginare quanto sia tortuoso il cammino del contribuente che voglia far valere in sede giudiziale la prescrizione quinquennale delle imposte erariali (IVA –IRPEF –IRES ecc.).

Tortuoso ma non impossibile. Infatti, pur nelle difficoltà, negli ultimi anni si segnalano alcune pronunce di merito favorevoli alla tesi della prescrizione quinquennale delle imposte erariali. Ultima in ordine cronologico è la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n°45/13/2018, con cui è stata riconosciuta l’illegittimità di un’intimazione di pagamento per intervenuta prescrizione quinquennale dei crediti sottesi (tra cui vi erano anche crediti erariali).

Al riguardo, sostengono i giudici laziali, deve registrarsi il recente intervento della Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, che, risolvendo un contrasto giurisprudenziale formatosi nel corso degli anni in tale materia presso lo stesso Giudice di legittimità, ha riconosciuto la durata quinquennale del termine prescrizionale delle pretese creditorie impositive dell’Amministrazione finanziaria riportate nella cartella di pagamento.

Si legge, in detta sentenza n. 23397 del 2016, che: “La scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del D.Lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della L. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”.

Dunque, la CTR di Roma, Sezione 13, partendo dalle Sezioni Unite, offre una lettura degli artt. 2948 c.c. e 2953 c.c. del tutto favorevole al contribuente.

La questione, poi assume notevole interesse anche perché secondo un recentissimo orientamento della Corte di Cassazione (leggi articolo) eventuali parziali pagamenti del tributo o dell’imposta non interrompono la prescrizione. Ciò significa che se vi sono debiti iscritti a ruolo per più di cinque anni e non vi sono stati atti interruttivi della prescrizione, il contribuente potrà agire per far dichiarare la loro illegittimità anche qualora abbia chiesto la rateazione del debito e versato alcune rate.

Pertanto, è sempre bene verificare con attenzione la propria posizione fiscale.

Se vuoi fare una valutazione della tua posizione debitoria compila il seguente modello, ti risponderemo subito!

Il pagamento parziale non interrompe la prescrizione

Riferimenti:

– Corte di Cassazione sentenza n°18/2018

Una buona notizia per tutti i contribuenti che nel corso degli anni hanno eseguito dei pagamenti parziali (ad esempio versamento di alcune rate a ex Equitalia) e che ora, non essendo più in grado di far fronte al proprio debito, hanno smesso di versare il quantum.

Infatti, la Corte di Cassazione con la sentenza n°18/2018, riprendendo una recentissima pronuncia (Cass. sent. n°7820/2017), ha avuto modo di confermare il seguente principio di diritto: i pagamenti parziali non possono considerarsi ricognizione chiara e specifica del diritto altrui in quanto possono essere giustificati dalla necessità di paralizzare l’azione esecutiva dell’ente impositore (anche tramite l’Agente della Riscossione) e pertanto, non possono essere considerati atti interruttivi della prescrizione.

Invero, la questione sottoposta all’esame della Suprema Corte aveva ad oggetto l’eccezione sollevata da un contribuente in merito all’intervenuta prescrizione di alcuni contributi INPS recati in una cartella di pagamento nonostante quest’ultimo avesse negli anni pagato alcune rate del debito proprio al fine di evitare il pignoramento sui propri conti bancari.

Sul punto, dunque, la Suprema Corte ha dato ragione al contribuente poiché secondo gli Ermellini il pagamento parziale, ove non accompagnato dalla precisazione della sua effettuazione “in acconto”, non può valere come riconoscimento del debito, rimanendo comunque rimessa al giudice di merito la relativa valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata (Sentenza n. 14927 del 2010; Ordinanza n. 24555 del 2010).

Consiglio:

a seguito di alcuni interessati pronunce emesse recentemente dalla Corte di Cassazione e particolarmente favorevoli al contribuente consigliamo di farvi fare una seria valutazione del vostro debito da parte di un professionista al fine di versare all’Agenzia delle Entrare – Riscossione (ex Equitalia) solo ciò che è effettivamente dovuto!

Se vuoi fare una valutazione della tua posizione debitoria compila il seguente modello, ti risponderemo subito!

Notifica degli atti tributari al familiare convivente



Domanda: come deve essere effettuata la notifica al familiare convivente in caso di assenza del destinatario?

Accade spesso, esaminando le relate di notifica delle cartelle di pagamento ovvero di avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate, che mi trovi difronte ad atti tributari la cui notifica è stata eseguita da parte del messo comunale o dell’Ufficio al familiare convivente (spesso la moglie), stante l’assenza del destinatario, senza, tuttavia, che il messo si sia preoccupato di notificare al destinatario (mediante raccomandata) l’informativa dell’avvenuta consegna dell’atto a persona diversa dell’effettivo destinatario.

Orbene, detto modo di procedere risulta illegittimo poiché avviene in palese violazione dell’art. 60 del D.P.R. n°600/1973.

Difatti, detta norma dispone che se l’atto viene consegnato al familiare convivente per assenza del destinatario, il messo dovrà dare notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto o dell’avviso, a mezzo di lettera raccomandata, all’effettivo destinatario.

La norma non lascia alcun dubbio interpretativo: per perfezionare la notifica di un atto della riscossione o di un atto tributario consegnato a un familiare convivente è necessaria la raccomandata informativa che diviene, dunque, elemento essenziale per la validità della notifica. In mancanza l’atto deve considerarsi come mai pervenuto nella sfera di conoscenza del destinatario.

Sul punto, del resto, si è espressa recentemente la Corte di Cassazione con la sentenza n° 2868/2017, la quale ha precisato il principio di diritto appena esposto. Inoltre il Giudice di legittimità ha inteso comunque porre l’accento sul fatto che l’applicazione dei principi di cui all’art. 60 del DPR 600/1973 sono validi solo in caso di notifica eseguita dal messo comunale o dal messo speciale dell’Ufficio poiché in caso di notifica avvenuta a mezzo posta valgono i differenti dettami di cui agli  artt. 137 e ss del c.p.c. che, nel caso specifico, non prevedono una successiva raccomandata informativa.

Se hai dubbi in merito alla regolarità degli atti tributari, contatta lo studio per un esame di tutte le notifiche compilando il seguente modulo

Illegittimità delle sanzioni irrogate per violazione degli studi di settore

Domanda: sono sempre dovute le sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate in caso di violazione degli studi di settore?

Riferimenti: Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sentenza n° 2499/6/2017.

Secondo i giudici toscani la risposta è negativa.

Difatti, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, con la sentenza n° 2499/6/2017, sostiene che l’accertamento del Fisco effettuato tramite gli studi di settore, basandosi su medie statistiche, benché con un elevato grado probabilistico, non sia comunque idoneo a legittimare l’applicazione di una sanzione amministrativa. In sostanza non si può configurare in detto accertamento una sicura attribuzione del soggetto alla violazione (c.d. principio della personalità) né tantomeno una connotazione colpevole nella condotta del contribuente.

Benché, in prima analisi, la decisione dei giudici toscani possa sembrare alquanto stravagante se non addirittura contraddittoria, in verità enuncia un principio di diritto che purtroppo non trova spesso terreno fertile nelle aule di tribunale. Invero, ci si chiede come si possa conciliare la riconosciuta condizione di antieconomicità del contribuente, protrattasi attraverso risorse finanziarie non dichiarate, con la mancanza di colpevolezza dello stesso.

La risposta, al di là delle apparenze, è che l’applicazione di una sanzione tributaria, al pari di quella penale, postula sempre (guai se così non fosse!) una determinata connotazione psicologica (colposa o dolosa) della condotta (c.d. principio di colpevolezza) che non può essere presunta ma deve essere dimostrata dal Fisco in sede giudiziaria. Nel nostro ordinamento non esiste per nessun tipo d’illecito la presunzione di colpevolezza. Quindi, difronte a un’obbligazione tributaria scaturita da presunzioni la relativa sanzione non può essere meccanicamente applicata sulla base della medesima presunzione che ha sorretto  l’accertamento.

Del resto, ragionare diversamente condurrebbe a risultati paradossali: in un illecito tributario non sanzionato penalmente il contribuente si presumerebbe colpevole mentre in un illecito punito penalmente  il contribuente si presumerebbe non colpevole.

E’ evidente che il ragionamento seguito dalla CTR della Toscana ha seguito perfettamente il tracciato costituzionale oltre che quello della ragionevolezza.

Avv. Alessandro Sgrò

Rideterminazione della classe e della rendita su procedura DOCFA

Domanda: come deve essere motivato un avviso di accertamento relativo alla variazione di classamento di un immobile?  

E’ un principio ormai consolidato in sede giudiziaria che l’atto con cui l’amministrazione disattende le indicazioni del contribuente  effettuate tramite procedura DOCFA deve contenere una adeguata motivazione che sia idonea a delimitare l’oggetto della successiva ed eventuale controversia giudiziaria (Cass. sent. n° 2709/2014).

Invero, in tema di classamento di immobili, qualora l’attribuzione della rendita catastale avvenga a seguito della procedura DOCFA, l’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento è soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, la motivazione dovrà essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente.

In sostanza, qualora l’Ufficio proceda a una riconsiderazione dell’estensione dei vani (ad esempio da 10 a 12 vani), deve specificare nell’atto notificato al contribuente le ragioni della predetta estensione proprio perché correlata ad una diversa valutazione dei fatti posti a base della dichiarazione DOCFA.

Sul punto si segnalano le seguenti pronunce che hanno ribadito i principi di diritto di cui sopra:

– Cass. sent. 28933/2017;

– Cass. sent. n°12080/2016;

– Cass. sent. n. 5580/2015.

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Ipotesi d’illegittimità dell’atto di pignoramento presso terzi emesso dall’ex equitalia.


Riferimenti:

– art. 72-bis, del D.P.R. n. 602/1973;

– Corte di Cassazione, sentenza n°26519/2017.

Com’è noto, a seguito della notifica di un avviso di accertamento esecutivo, di un avviso di addebito (da parte dell’INPS), ovvero di una cartella di pagamento, in mancanza del versamento delle somme intimate, l’Agenzia delle Entrate – Riscossione potrà procedere in via cautelare oppure in via esecutiva nei confronti del debitore.

Tra le azioni invasive che spesso sono attuate dall’Agenzia delle Entrate vi è certamente il pignoramento presso terzi. Trattasi della possibilità di pignorare il conto bancario o postale del contribuente ovvero lo stipendio presso il datore di lavoro o l’assegno pensionistico. (Si veda il mio articolo sul pignoramento presso terzi nella sezione COSA FARE IN CASO DI…)

Ad ogni modo, qualora l’Agenzia delle Entrate (ex Equitalia) intendesse agire mediante un atto di pignoramento presso terzi ai sensi dell’art. 72-bis, del D.P.R. n. 602/1973, il provvedimento notificato al contribuente e al terzo pignorato dovrà contenere l’indicazione degli atti precedentemente notificati e l’entità del presunto credito per cui si intende procedere. In mancanza, l’atto sarà nullo per difetto di motivazione.

Non è, dunque, sufficiente per l’Agente della Riscossione specificare l’entità del credito con la generica dicitura “Euro….per tributi/entrate”, senza alcun riferimento alle sottese cartelle di pagamento, avvisi di accertamento o avvisi di addebito.

Il pignoramento presso terzi, in sostanza, deve contenere l’elenco dei prodromici atti che sono stati notificati al contribuente. Inoltre, qualora l’Agente della Riscossione dovesse in sede giudiziale produrre l’elenco degli atti che assume siano alla base del pignoramento, detto elenco non gode di fede privilegiata  di cui godono i fatti accertati dal pubblico ufficiale.

Sul punto l’orientamento della Corte di Cassazione (si veda sentenza n° 26519/2017) è perentorio e univoco:

“L’atto di pignoramento presso terzi eseguito dall’agente di riscossione ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 72-bis in sede di esecuzione esattoriale, sebbene preordinato alla riscossione coattiva di crediti erariali, non acquisisce per ciò stesso la natura di atto pubblico, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2699 e 2700 cod. civ., conservando invece quella di atto processuale di parte.

Consegue che l’attestazione ivi contenuta delle attività svolte dal funzionario che ha materialmente predisposto l’atto (nella specie, concernente l’allegazione di un elenco contenente l’indicazione delle cartelle di pagamento relative ai crediti posti in riscossione) non è assistita da fede pubblica e non fa piena prova fino a querela di falso, a differenza di quanto avviene quando l’agente di riscossione esercita – D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 49, comma 3, – le funzioni proprie dell’ufficiale giudiziario, ad esempio notificando il medesimo atto”.I

Pertanto, qualora la controparte in sede di contestazione non riesca a dimostrare di aver allegato l’elenco degli atti esecutivi posti alla base del pignoramento, il Giudice dovrà dichiarare l’illegittimità dell’azione esecutiva intrapresa da parte di Equitalia per difetto di motivazione.

Opposizione all’iscrizione d’ipoteca


Riferimenti:

– art. 77, comma 2 bis, del D.P.R. n. 602 del 1973;

– Corte di Cassazione, ordinanza n°26129/2017.

Qualora il contribuente riceva da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione la notifica dell’iscrizione d’ipoteca potrà sempre opporsi a tale provvedimento cautelare anche se ha omesso di impugnare il preavviso di iscrizione di ipoteca precedentemente notificatogli.

Questo è il principio espresso dalla recentissima ordinanza n°26129/2017 emessa dalla Corte di Cassazione.

Invero, la Suprema Corte non ha fatto altro che ribadire un principio già enunciato dal giudice di legittimità in altre precedenti pronunce e precisamente che: “In tema di contenzioso tributario, l’impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, il quale, tuttavia, abbia natura di atto impositivo.., è una facoltà e non un onere, il cui mancato esercizio non preclude la possibilità d’impugnazione con l’atto successivo” (Ordinanza n. 14675/2016;  Ordinanza n. 14045/2017).

Pertanto, il Giudice non potrà mai dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto dal contribuente avverso un’iscrizione d’ipoteca in mancanza di una previa impugnazione di altro atto autonomamente impugnabile proceduralmente presupposto.

Contratto di locazione dichiarato nullo e/o inesistente in sede civile

Riferimenti:

– art. 26 del D.P.R. n. 917/1986;

Corte di Cassazione sentenza n° 7709/2017.

– Corte Costituzionale sentenza n° 50/2014;

– Corte Costituzionale sentenza n°165/2015.

Non è raro che il contribuente si veda notificare dall’Agenzia delle Entrate la ripresa a tassazione (IRPEF) di redditi da fabbricati per omessa dichiarazione dei canoni percepiti in forza di un contratto di locazione che, in verità, è stato dichiarato nullo ovvero inesistente in sede civile.

Di regola questo tipo di accertamenti trae origine dalla denuncia di un contratto verbale di locazione, presso l’Ufficio del registro, effettuata esclusivamente da chi ha occupato l’immobile. Le ragioni, palesemente fraudolente, che inducono simili condotte da parte degli occupanti abusivi sono molteplici (es.: acquisire la residenza nell’immobile, creare del caos in una causa civile intrapresa dal proprietario per occupazione sine titulo, oppure evitare la conclusione di comodati gratuiti e al contempo ottenere, mediante la compilazione di un semplice modulo, canoni di locazione calmierati).

Ebbene, la recentissima sentenza n°7709/2017, della Corte di Cassazione, ha finalmente chiarito che deve considerarsi illegittima la ripresa a tassazione dei canoni di locazione tutte le volte in cui in sede civile sia stata accertata e riconosciuta l’inesistenza di un valido contratto di locazione. Secondo l’orientamento del giudice di legittimità, una sentenza che dichiara l’inesistenza o la nullità di un contratto di locazione rende del tutto assente il presupposto impositivo di cui all’art. 26 del DPR 917/1986 e, di conseguenza, illegittimo l’accertamento effettuato dall’Agenzia delle Entrate. In questi casi, difatti, è del tutto priva di effetti giuridici un’eventuale denuncia di contratto verbale di locazione fatta da chi quell’immobile lo ha occupato senza alcun valido titolo di detenzione (occupazione abusiva).

Invero, in questi casi, non solo l’Agenzia delle Entrate deve tener conto di una sopravvenuta pronuncia che accerti che l’immobile non è stato mai concesso in locazione, ma dovrebbe tener conto degli effetti delle recentissime sentenze della Corte Costituzionale nn. 50/2014 e 165/2015. Dette pronunce hanno chiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale). I suddetti commi 8 e 9, come noto, consentivano infatti al conduttore di denunziare al Fisco le omissioni anche parziali da parte del proprietario, in punto di assolvimento degli obblighi relativi alla imposta di registro, sia relativamente alle imposte dirette. In tali casi il conduttore otteneva il diritto ad un contratto di quattro anni più quattro, insieme con la fissazione del canone in misura pari al triplo della rendita catastale.

Con le predette pronunce della Corte Costituzionale le eventuali denunce di contratti verbali di locazione non potranno avere alcun effetto negativo in capo al proprietario. Ciò, a maggior ragione, ove si tenga presente che ai sensi dell’art. 1, comma 4, della legge n. 431/98 per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta ab substantiam. Opinando diversamente si renderebbero leciti intenti fraudolenti da parte degli occupanti dell’immobile che potrebbero denunciare a loro piacimento l’esistenza d’immaginari contratti di locazione.

CONSIGLI UTILI:

  1. ) proporre un’istanza di riesame all’Ufficio del registro per chiedere la nullità ab origine della registrazione, depositando un’eventuale sentenza emessa in sede civile che accerti l’occupazione abusiva e argomentando l’illegittimità della registrazione del contratto alla stregua delle recenti sentenze della Corte Costituzionale;
  2. ) proporre un’autonoma istanza di riesame all’ufficio che ha emesso l’avviso di accertamento allegando e argomentando quanto già detto al precedente punto;
  3. ) proporre ricorso entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento, innanzi la Commissione Tributaria Provinciale.

Stima effettuata dall’agenzia del territorio

Riferimenti:

– Corte di Cassazione ordinanza n° 21257/2017

L’Agenzia delle Entrate non dovrebbe mai dimenticare un fondamentale principio di diritto processuale: dinanzi al giudice tributario l’amministrazione finanziaria è sullo stesso piano del contribuente!

In materia di accertamenti immobiliari, ai sensi degli artt. 51 e 52 del  D.P.R. n. 131 del 1986, l’Ufficio è tenuto non solo ad indicare il valore dei beni, ma anche il criterio in base al quale esso è stato determinato, e quindi a motivare adeguatamente l’avviso di accertamento, in modo da porre il contribuente nella condizione di poter contestare l‘an ed il quantum della pretesa tributaria.

Inoltre, un’eventuale stima effettuata dall’Agenzia del Territorio, depositata in sede giudiziale, che indica un valore superiore dell’immobile a quello indicato dalle parti nel contratto di compravendita, provenendo da soggetto che non è al di sopra delle parti, non costituisce elemento di prova sufficiente.

Corollario di detto principio è che in sede contenziosa la relazione di stima di un immobile, redatta dall’Ufficio tecnico erariale costituisce una semplice perizia di parte, pari a quella depositata dal contribuente.

Nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte di convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della decisione a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente (Corte di Cassazione ordinanza n° 21257/2017).

In sostanza, in sede di accertamenti immobiliari, lo scostamento tra il valore dichiarato dalle parti nell’atto di compravendita e quello O.M.I., rappresenta una presunzione semplice, che il contribuente può agevolmente superare dimostrando in sede contenziosa la sussistenza di taluni elementi concreti dell’immobile: quali le caratteristiche del manufatto edilizio, realizzato a più riprese con materiali di vario tipo, e senza una logica progettuale, la vetustà, le condizioni di manutenzione, l’ubicazione in una traversa di una strada di scorrimento, in zona suburbana, ecc..

 

Illegittima la notifica fatta al socio accomandante

Riferimenti:

– sentenza n° 3887/10/2017 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio.

Nel caso di società in accomandita semplice, la pretesa impositiva può essere rivolta solo ed esclusivamente alla Società e al socio accomandatario e non anche nei confronti del socio accomandante, nel cui caso sussisterebbe un difetto di legittimazione passiva. Questo è il condivisibile principio espresso dalla recentissima pronuncia emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio con la sentenza n° 3887/10/2017.

La questione trae origine da un invito notificato dall’Agenzia delle Entrate al socio accomandante di presentarsi presso i preposti Uffici dell’Amministrazione al fine di chiarire alcune operazioni effettuate dalla Società in accomandita semplice. Società quest’ultima che si trovava temporaneamente priva del socio accomandatario deceduto da qualche giorno.

All’invito si presentava il socio accomandante eccependo di non essere legittimato a riscontrare quanto richiesto dall’Ufficio e che, comunque, i soci della Società avrebbero provveduto alla nomina del nuovo socio accomandatario nel termine di sei mesi prescritto dall’articolo 2323 c.c..

Nel frattempo l’Ufficio, noncurante delle eccezioni sollevate in fase di contraddittorio endoprocedimentale dal socio accomandante, notificava un avviso di accertamento alla residenza di quest’ultimo.

Avviso che, come abbiamo avuto modo di argomentare, è stato ritenuto dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio oltremodo illegittimo poiché notificato al socio accomandante privo di alcuna legittimazione a ricevere gli atti dell’Amministrazione Finanziaria.

In definitiva, in caso di società in accomandita semplice, tutti gli atti tributari devono essere notificati alla sede legale della società ovvero al socio accomandatario, non potendo l’Amministrazione Finanziaria procedere nei confronti degli altri soci.

Prescrizione di 5 anni delle imposte erariali?

Riferimenti:

– Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sentenza n°1050/12/2017;

– Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sent. n°23397/2016.

Un dato è oramai pacifico: dopo la sentenza n° 23397/2016 della Corte di Cassazione, Sezione Unite, molte Commissioni Tributarie che in passato ritenevano applicabile la prescrizione decennale per i crediti erariali sembrano aver mutato improvvisamente rotta. Ora prevale il principio secondo cui le imposte dirette e indirette dello Stato sono soggette alla prescrizione quinquennale.

A tal proposito, si segnala la recentissima sentenza n°1050/12/2017, emessa dalla CTR di Roma. Nel caso sottoposto all’attenzione della Commissione romana, il contribuente impugnava un preavviso di fermo amministrativo emesso da Equitalia per l’omesso versamento dell’IRPEF dall’anno 2005, nonostante la regolare notifica nell’anno 2009 di una cartella di pagamento, tra l’altro, mai impugnata.

Il contribuente eccepiva l’intervenuta prescrizione quinquennale dell’IRPEF  dalla data di notifica della cartella di pagamento alla data di notifica del preavviso di fermo amministrativo.

La Commissione giudicante prendendo spunto dalla predetta sentenza n° 23397/2016 della Corte di Cassazione, sezioni Unite, sosteneva la correttezza delle argomentazioni giuridiche offerte dal contribuente circa l’intervenuta prescrizione quinquennale dell’IRPEF annullando l’iscrizione a ruolo delle somme inevase e inibendo l’Equitalia a porre in essere azioni cautelari sui beni mobili del ricorrente.

Il principio espresso dai Giudici laziali è che “La trasformazione da prescrizione quinquennale in decennale si perfeziona soltanto con l’intervento del “titolo giudiziale divenuto definitivo”, sentenza o decreto ingiuntivo, mentre la cartella esattoriale, l’avviso di addebito dell’Inps e l’avviso di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria costituiscono – per propria natura incontrovertibile – semplici atti amministrativi di autoformazione e pertanto sono privi dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”.

Sulla prescrizione quinquennale delle imposte erariali si segnalano anche:

la sentenza n°129/1/2017 della Commissione Tributaria Provinciale di Savona;

– sentenza n° 267/1/2017  della Commissione Tributaria Provinciale di Avellino;

– sentenza n°101/3/2017 della Commissione Tributaria Provinciale di Ascoli Piceno.

Rettifica rendita catastale


Accade spesso che a seguito di una variazione dello stato dell’immobile, il proprietario, tramite un proprio tecnico di fiducia, proponga all’Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio, con la c.d. procedura DOCFA,  categoria, classe e rendita da attribuire al bene.

In caso di mancata rettifica della rendita catastale da parte dell’Agenzia delle Entrate, entro 12 mesi dall’invio della DOCFA, la rendita iscritta in atti come proposta diviene definitiva (ciò però non esclude che nel corso degli anni l’Agenzia proceda a una rettifica).

Se, viceversa, entro i 12 mesi l’Agenzia ritiene di non dover accogliere la classe, la categoria e la rendita proposta, notificherà al proprietario un provvedimento di rigetto/rettifica che corregge retroattivamente quanto oggetto di proposta.

Il provvedimento di rettifica/rigetto dev’essere  adeguatamente motivato. A queste conclusioni è giunta, finalmente, la Corte di Cassazione con la sentenza n°3394/2014 che, dopo aver giustamente criticato alcuni aspetti del sistema catastale italiano, ha censurato la condotta dell’Ufficio sull’assunto che “non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal contribuente con la Dofca viene disattesa”.

In verità, per chi ancora non avesse avuto modo di trattare con attenzione le problematiche sottese alla c.d. procedura DOCFA, occorre precisare che la suindicata pronuncia, sebbene pienamente conforme ai  principi di cui all’art. 3 della L. n°241/1990 e art. 7 dello Statuto del Contribuente in materia di motivazione degli atti della P.A., si pone in netto contrasto con il suo precedente orientamento. Difatti, con ordinanza n°15495/2013, i giudici di legittimità ritenevano che “La questione della adeguata motivazione del provvedimento di classamento ed attribuzione della rendita è stata molteplici volte risolta da questa Corte nel senso che essa può ritenersi correttamente esplicitata anche mediante la mera indicazione dei dati oggettivi acclarati dall’ufficio tecnico erariale e della classe conseguentemente attribuita all’immobile, trattandosi di dati idonei (specie allorquando il provvedimento costituisca l’atto terminale di una procedura di tipo fortemente partecipativo quale è la c.d. DOCFA, che implica l’indicazione degli elementi fattuali rilevanti da parte dello stesso contribuente, dati che nella specie di causa costituiscono la base oggettiva dello stesso provvedimento di classamento, che si è limitato a farne difforme valutazione rispetto alla proposta) a consentire al contribuente, mediante il raffronto con quelli indicati nella propria dichiarazione, di intendere il “petitum provvedimentale”, sì da essere in condizione di tutelarsi mediante ricorso alle commissioni tributarie”.

Orbene, a parere dello scrivente, la Cassazione con la sentenza n° 3394/2014, pronunciandosi sulla necessità di un’adeguata motivazione anche del provvedimento di rigetto/rettifica, ha senza dubbio ripristinato una situazione di legalità, posto che, com’è noto, la motivazione dell’avviso di accertamento ha una duplice finalità: rendere esplicito e manifesto l’iter logico giuridico seguito nella formulazione dell’atto e, al contempo, consentire al destinatario la cognizione e la contestazione degli eventuali errori di fatto e di diritto che lo inficiano.

Tuttavia, ci si chiede se non sia il caso di intervenire con altrettanta forza nel far rispettare in materia catastale anche il principio di collaborazione tra Fisco e contribuente, sancito all’art. 12 della L. n°212/2000. Principio, quest’ultimo, che verrebbe completamente vanificato se l’attività dell’Ufficio non consentisse al soggetto sottoposto ad accertamento di instaurare alcun contraddittorio, precedente alla fase di notifica dell’atto impositivo.

Le attività di produzione documentale e di formulazione di osservazioni esperibili dal contribuente sono, infatti, in grado di incidere nel merito sul contenuto dell’eventuale provvedimento con importanti e non trascurabili effetti di deflazione del contenzioso. Sul punto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in numerose occasioni, affermando il diritto del contribuente a contraddire in via preventiva rispetto all’emissione dell’atto impositivo.

In sostanza i Giudici europei affermano il fondamentale principio secondo cui il diritto di difesa, in quanto principio generale del diritto comunitario, deve trovare applicazione ogni volta che l’Amministrazione si proponga di adottare un atto capace di produrre effetti rilevanti nella sfera giuridica del destinatario. In forza di tale principio “i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal fine essi devono beneficiare di un termine sufficiente” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Causa C- n°349/2007).

Si ricorda che il nuovo classamento e rendita, se non opposti entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento, rilevano:

– ai fini dell’imposta delle SUCCESSIONI e DONAZIONI;

– ai fini IRPEF;

– ai fini IMU;

– ai fini TARES.

                                                                                                                                          Avv. Alessandro Sgrò

Prescrizione dei tributi erariali

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Riferimenti:

art. 2953 c.c.;

art. 2946 c.c.;

art. 2948 c.c.

Comm. Trib. Prov. di Reggio Calabria, sentenza n° 2634/2014;

Comm. Trib. Prov. di Messina, sentenza n°512/13/2013;

Corte di Cass. sent. n°285/1968.

Una delle questioni che spesso ci troviamo ad affrontare è quella relativa alla prescrizione dei tributi erariali. In particolare, ci si chiede se il termine di prescrizione del tributo da considerare, a seguito della notifica di una cartella di pagamento che non sia stata oggetto di opposizione, sia quello quinquennale ovvero quello ordinario di dieci anni.

Difatti, capita spesso che il contribuente riceva da parte di Equitalia un avviso di pagamento con riferimento a una precedente cartella di pagamento che, per varie ragioni, non è stata opposta in sede giudiziaria e debba, dunque, valutare l’opportunità o meno di eccepire l’intervenuta prescrizione.

Ebbene, la mia opinione è quella di considerare anche per i tributi erariali la prescrizione quinquennale, con decorrenza dalla notifica della cartella esattoriale, sebbene in materia non vi sia uniformità di giudizi sia perché alcuni giudici tributari sostengono l’assoggettabilità anche della cartella di pagamento, come una qualsiasi sentenza di condanna passata in giudicato, al termine ordinario decennale di cui all’art. 2953 c.c. sia perché i tributi erariali, sempre a parere di alcuni giudici di merito, soggiacciono al termine decennale di cui all’art. 2946 c.c., non essendo prevista per quest’ultimi una norma ad hoc che disciplini la prescrizione più breve.

Inutile dire che lo scrivente non condivide tale ultima lettura data da alcune commissioni di merito sugli artt. 2953 e 2946 c.c..

Procediamo con ordine.

Sull’art. 2953 c.c..

Secondo molte Commissioni Tributarie la prescrizione dei crediti, di qualsivoglia natura, a seguito della notifica di una cartella di pagamento non impugnata nei termini di legge è soggetta, non diversamente da una sentenza di condanna passata in giudicato, alla prescrizione decennale che decorre dalla data di notifica.

Detta ricostruzione non appare per nulla convincente poiché la cartella esattoriale non può in alcun modo essere accostata a un titolo giudiziale avendo la prima, piuttosto, natura di atto amministrativo che cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto e dunque del tutto priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Pertanto, il termine prescrizionale deve essere quello del credito a cui si riferisce la cartella.

Detto principio, è bene ricordarlo, era stato già enunciato a fine anni 60 dalla Corte di Cassazione che appunto con la sentenza n°285/1968 era intervenuta in materia sostenendo, a ragione, che la norma dell’art. 2953 c.c. non può essere applicata per analogia oltre i casi in essa stabiliti e cioè solo ed esclusivamente qualora il credito sia divenuto definitivo a seguito di sentenza passata in giudicato. Ora, nonostante detta pronuncia può considerarsi un po’ datata, si deve tenere presente che detto principio non è mai stato superato da altre pronunce di legittimità.

Interessante in materia è la recentissima pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Calabria che con la sentenza n° 2634/2014, ha stabilito che “la decorrenza del termine per l’opposizione, infatti, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione decennale (analogamente Cass. 12263/07).

E’, quindi, solo con la sentenza di condanna passata in giudicato che il diritto alla riscossione di un’imposta, conseguente ad avviso di liquidazione divenuto definitivo, non è più assoggettato ai termini di decadenza e prescrizione i quali, com’è noto, scandiscono i tempi dell’azione amministrativo-tributaria, ma al termine di prescrizione generale previsto dall’art. 2953 cod. civ.; in questo caso il titolo sulla base del quale viene intrapresa la riscossione non è più l’atto amministrativo, ma la sentenza (Sez. 5, Sentenza n. 5837 del 11/03/2011, Rv. 617262). Non vi sono ragioni per discostarsi da tale condivisibile giurisprudenza e, quindi, si deve escludere che la cartella di pagamento non opposta sia suscettibile di acquistare efficacia di giudicato, con conseguente applicazione della prescrizione decennale ex art. 2953 c.c..”

Dunque, possiamo affermare che solo con una sentenza di condanna passata in giudicato il diritto alla riscossione dell’imposta è soggetto al termine prescrizionale decennale di cui all’art. 2953 c.c., negli altri casi e, in particolare nell’ipotesi di notifica di una cartella di pagamento, detta norma non può trovare applicazione.

Sull’art. 2946 c.c..

Superato questo primo ostacolo, non dobbiamo trascurare un altro aspetto legato alla vicenda della prescrizione del tributo erariale che potrebbe crearci non pochi problemi in giudizio. La questione riguarda il corretto inquadramento del termine prescrizionale delle imposte erariali (IRPEF, IVA, IRES ecc..).

In sostanza, la domanda è se per dette imposte sia applicabile il termine breve prescrizionale di cinque anni oppure siano comunque suscettibili al termine decennale di cui all’art. 2946 c.c., non essendo prevista una norma che disponga sulla prescrizione di dette imposte. Difatti l’art. 2946 c.c., tanto caro a molti giudici tributari, recita “ Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”.

Se, come dicevo, le Commissioni Tributarie sono solite appiattirsi sul dettato normativo di cui all’art. 2946 c.c., una più attenta disamina della questione potrebbe portare a risultati diametralmente opposti e, certamente, più favorevoli per il contribuente. Difatti, la risposta è contenuta all’art. 2948, n.4 c.c. che prevede la prescrizione quinquennale per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anni o in termini più brevi.

Sul punto la già menzionata pronuncia della Commissione Tributaria Prov. di Reggio Calabria arriva alla condivisibile conclusione che “Nelle due principali imposte erariali (imposte dirette ed IVA) il debito di imposta sorge, annualmente, a seguito della dichiarazione che ogni soggetto passivo deve effettuare appunto “annualmente”. Per le imposte dirette ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600: lo stesso articolo 7 del D.P.R. n. 917 del 1986 (anche nella novella posta dal D.Lgs. n. 344 del 2003) recita che l’imposta è dovuta per anni solari e, quindi, ogni anno.

Ne discende che, sia pure in presenza dei relativi presupposti, l’imposta diretta deve essere pagata “periodicamente” a seguito di una generale previsione legislativa che stabilisce regole valide e efficaci per ogni anno futuro. (C.T.P. Milano 20.11.2004 n. 207). Lo stesso dicasi per la dichiarazione annuale relativa all’I.V.A. (imposta della presente fattispecie) in cui il presupposto del tributo nasce anche trimestralmente ma la dichiarazione è unica: quindi perfettamente rientrante nella disposizione codicistica di cui all’art. 2948 n. 4 c.c..”

Dello stesso avviso è la Commissione Tributaria Provinciale di Messina che con la sentenza n°512/13/2013 ha annullato un ‘intimazione di pagamento relativa a IRPEF, IRAP e IVA notificata oltre il termine quinquennale applicando l’art. 2948 n°4 c.c., aggiungendo inoltre che “Appare, infatti, assolutamente incongruo e irragionevole ammettere un termine prescrizionale “ad accertamento intervenuto” notevolmente più lungo rispetto ai termini decadenziali più brevi previsti (addirittura inferiori ai cinque anni) per la complessa attività accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria.

E ciò ove più si consideri che le disposizioni relative alla decadenza dall’azione amministrativa, se è vero che costituiscono un “limite” e, quindi, una certezza anche per il contribuente in ordine al periodo di accertamento, sono poste prevalentemente a favore di quest’ultima, in quanto dilatano (notevolmente) i tempi di controllo dell’operato del contribuente, che, ragionevolmente, dovrebbero coincidere con quelli della sua dichiarazione.”

Dal quadro normativo in esame e dalla recente giurisprudenza di merito si possono trarre alcune preziosissime conclusioni:

1) è sempre possibile far valere la prescrizione del tributo recato da una cartella di pagamento non oggetto di impugnazione, opponendosi al successivo avviso di pagamento notificato al contribuente;

2) la cartella di pagamento non può essere assimilata a una sentenza di condanna passata in giudicato e pertanto non può applicarsi al credito ivi contenuto la prescrizione decennale;

3) le imposte dirette e I.V.A. non scontano la prescrizione decennale poiché trattasi di imposte che devono essere assolte periodicamente e pertanto rientrano nell’ambito di cui all’art. 2948, n°4 c.c..

Attenzione:

In materia, come più volte detto, non vi è unicità di orientamento pertanto l’esito di un eventuale giudizio, allo stato attuale, risulta tutt’altro che scontato. A ogni buon conto è sempre importante eccepire in via subordinata la prescrizione delle sanzioni amministrative, poiché anche qualora il giudicante ritenesse di non accogliere le doglianze sulla prescrizione breve dovrà comunque rideterminare gli importi recati nell’avviso di pagamento in quanto le sanzioni amministrative si prescrivono sempre e comunque in cinque anni!

SUL PUNTO SI SEGNALANO ANCHE:

Corte di Appello di Lecce, sentenza n°668/2014;

Commissione Trib. Prov. di Ferrara, sentenza n° 256/5/2013;

Tribunale di Brindisi, Sez. Lav., sentenza n°509/2014.

Avv. Alessandro Sgrò

Accordo di riduzione del canone di locazione: l’ufficio deve prenderne atto!

Riferimenti:

– Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sentenza n°15099/16/2017.

– Agenzia delle Entrate: risoluzione n°60/E del 28/6/2010.

Qualora in un contratto di locazione o a seguito di successivi accordi contrattuali, le parti pattuiscano la gratuità di alcune mensilità del canone di locazione, l’Agenzia delle Entrate non può riprendere a tassazione, ai fini IRPEF, i canoni non percepiti dal locatore.

Questo è il principio espresso dalla recentissima sentenza n°15099/16/2017 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma.

La causa, patrocinata dallo Studio Legale Sgrò, traeva origine dal fatto che il locatore nell’anno 2009 aveva concesso in locazione un proprio immobile commerciale a una società affinché quest’ultima lo adibisse ad attività di ristorazione. Le parti stabilivano che il primo canone sarebbe stato versato non già dalla data d’inizio della locazione (1/5/2009), bensì dal mese di ottobre dell’anno 2009. La ragione di tale differimento era dovuta al fatto che la società conduttrice nel frattempo avrebbe dovuto portare a termine dei lavori e adeguare l’immobile alle norme urbanistiche per l’esercizio dell’attività di ristorazione.

Il locatore, pertanto, dichiarava quale reddito da fabbricati ai fini Irpef per l’anno 2009 le somme effettivamente percepite (canoni da novembre a dicembre), versando così il dovuto all’Agenzia delle Entrate.

Nonostante ciò l’Amministrazione Finanziaria notificava al contribuente un avviso di accertamento con cui riprendeva a tassazione anche i canoni non riscossi (dal mese di maggio al mese di ottobre).

La tesi dell’Ufficio è la seguente: la riduzione del canone, seppur pattuita dalle parti e riferibile ai lavori eseguiti sull’immobile posti a carico del conduttore, deve comunque considerarsi alla stregua della corresponsione del canone a favore di parte locatrice.

La questione, chiaramente, è stata sottoposta all’attenzione della Commissione Tributaria Provinciale di Roma che con la sentenza n° n°15099/16/2017, dopo un attento esame della copiosa documentazione depositata dallo Studio Legale Sgrò, ha dichiarato l’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato poiché la determinazione concreta del reddito da fabbricati è affidata al c.d. reddito effettivo rinveniente dalla locazione.

Invero, come precisato nel corso del giudizio, è la stessa Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n°60/E, del 28/6/2010, a sostenere chiaramente che “il perfezionamento dell’accordo di riduzione del canone può determinare, di fatto, la diminuzione della base imponibile ai fini dell’imposta di registro (come pure ai fini delle imposte dirette) e conseguentemente, la corresponsione di una minore imposta” , aggiunge inoltre che “il nuovo corrispettivo pattuito assumerà rilevanza ai fini Iva e delle imposte sui redditi”.

In sostanza, l’Ufficio avrebbe dovuto considerare l’espressa previsione, risultante dal contratto sottoscritto dalle parti, della non debenza da parte della società conduttrice di alcune mensilità. Canoni di locazione, difatti, mai percepiti e per i quali nessun diritto avrebbe potuto vantare parte locatrice in quanto esclusi ab initio  dal rapporto locativo.

Iscrizione d’ipoteca nulla senza il preavviso

Riferimenti:

– Corte di Cassazione, Sez. Unite sentenza n°19667/2014;

– Corte di Cassazione, Sez. Unite sentenza n°24823/2015;

– Commissione Tributaria Provinciale di Rieti, sentenza n°350/1/2016.

L’Equitalia non può procedere all’iscrizione d’ipoteca prima di aver notificato al contribuente un preavviso di iscrizione ipotecaria. Difatti, il preavviso/comunicazione ha la funzione di permettere al destinatario di intervenire nel procedimento cautelare per presentare osservazioni o effettuare il pagamento.

L’omessa attivazione di tale contradditorio endoprocedimentale comporta la nullità dell’iscrizione ipotecaria per palese violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito anche dagli artt. 41,47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In materia sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 19667/2014) che hanno affermato:

  • in tema di riscossione delle imposte l’’Amministrazione prima di iscrivere ipoteca sui beni immobili deve comunicare al contribuente che attuerà la misura cautelare concedendogli un termine per presentare osservazioni ovvero versare il dovuto. In mancanza, l’iscrizione d’ipoteca dovrà essere dichiarata illegittima.

Il principio è stato affermato nuovamente dalle Sezioni Unite con la sentenza n°24823/2015.

Recentissima, in materia, è inoltre la sentenza n°350/1/2016 della Commissione Tributaria Provinciale di Rieti che ha annullato un’iscrizione ipotecaria poiché non preceduta dalla notifica di preavviso di iscrizione riprendendo i principi di diritto espressi dalle  predette sentenze della Corte di Cassazione.

Corte di cassazione: nullo l’avviso di accertamento senza prova della delega

Riferimenti:

– art. 42 del D.P.R. n°600/1973;

– Corte di Cassazione, ordinanza n°12960/2017;

– Corte di Cassazione, sentenza n°22803/2015.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n°12960/2017 è tornata ad affrontare il tema della sottoscrizione degli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate. Ebbene, come già argomentato in un mio precedente articolo, qualora la sottoscrizione dell’atto impositivo non è quella del capo ufficio  titolare ma del “capo team” incombe sull’Amministrazione dimostrare in giudizio, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio. Difatti, solo il possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’Ufficio.

Cosa deve produrre in giudizio l’Agenzia delle Entrate?

Qualora l’avviso di accertamento è stato sottoscritto da un “capo team”, la Cassazione già con la pronuncia n°22803/2015 ha precisato che  la delega di firma o di funzioni di cui all’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973 deve indicare il nominativo del soggetto delegato, pena la sua nullità, che determina, a sua volta, quella dell’atto impositivo, sicché non può consistere in un ordine di servizio in bianco, che si limiti ad indicare la sola qualifica del delegato senza consentire al contribuente di verificare agevolmente la ricorrenza dei poteri in capo al sottoscrittore.

Principio quest’ultimo, come dicevo, affermato dalla recentissima ordinanza n°12960/2017, che confermando la pronuncia della CTR del Lazio n°1039/2/2016, ha ritenuto illegittimo un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate poiché in giudizio non era stata fornita la prova che il soggetto sottoscrittore fosse stato delegato dal Direttore Provinciale.

In sostanza, occorre una delega “nominativa , perché solo in tal modo si radica il rapporto di fiducia tra delegante e delegato, a nulla vale invece un ordine di servizio  senza l’indicazione specifica del soggetto delegato.

Avv. Alessandro Sgrò

 

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Attenzione all’ufficio che ha emesso l’atto

Riferimenti:

art. 31 del D.P.R. n°600/1973;

art. 58, del D.P.R. n°600/1973;

Corte di Cassazione, sentenza n°2998/1987;

Commissione Tributaria Provinciale di Milano, sentenza n°149/46/2009

Una delle attenzioni che il professionista deve prestare nell’esame degli avvisi notificati dall’Agenzia delle Entrate al contribuente è quella relativa alla competenza territoriale dell’ufficio che ha emesso l’atto.

Difatti l’art. 31 del D.P.R. n°600/1973, dopo aver disposto al primo comma che “Gli Uffici delle imposte controllano le dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta, ne rilevano l’ eventuale omissione e provvedono alla liquidazione delle imposte o maggiori imposte dovute … provvedono all’ irrogazione delle pene pecuniarie …”, al secondo comma, precisa che “La competenza spetta all’Ufficio distrettuale nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione alla data in cui questa è stata o avrebbe dovuto essere presentata”.

Con riferimento, poi, al concetto di “domicilio fiscale”, il successivo art.58, secondo comma, del D.P.R. n°600/1973, chiarisce che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato “hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”.

Dal suindicato quadro normativo risulta evidente che se l’atto viene notificato da un ufficio territorialmente incompetente il giudice ne dovrà dichiarare l’illegittimità. Si ritiene che solo la Direzione Provinciale e il competente ufficio territoriale di domicilio fiscale del contribuente abbia una maggiore conoscenza, rispetto agli altri uffici, della situazione economica, finanziaria e patrimoniale del contribuente ed è, quindi, nelle migliori condizioni per la raccolta di informazioni in modo da giungere a un’imposizione maggiormente aderente all’effettiva capacità contributiva del soggetto.

Sul punto, appare inequivoco il pensiero espresso dalla Corte di Cassazione in materia d’incompetenza territoriale degli uffici finanziari. Difatti, con la sentenza n° 2998/1987, si è affermato che “E’ giurisprudenza consolidata di questa Corte (Cass. 1983, n. 2301; 1980, n. 4277; 1977, n. 4462) che il difetto di competenza territoriale dell’Ufficio tributario che ha proceduto all’accertamento tributario comporta l’assoluta carenza di potere dell’organo amministrativo e, quindi, un vizio sostanziale e radicale dell’atto di accertamento dal quale discende la nullità assoluta di tali atti rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento tributario avente per oggetto tali atti e, quindi, anche innanzi al giudice delle Commissioni tributarie ovvero innanzi alla giurisdizione ordinaria adita dopo la pronuncia di tali organi (Cass. 1980, n. 4277 ed altre)”.

Sulla scia di tale consolidato orientamento da parte del giudice di legittimità, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con una recente pronuncia, ha dichiarato l’illegittimità di un’iscrizione a ruolo poiché disposta da un Ufficio dell’Agenzia delle Entrate (Ufficio di Milano 3), territorialmente incompetente. Difatti, la Commissione Tributaria rilevava che il contribuente era domiciliato fiscalmente nella circoscrizione territoriale dell’Ufficio di Milano 6 e, pertanto, solo quest’ultimo ufficio avrebbe potuto e dovuto eventualmente accertare e sanzionare il contribuente (Commissione Tributaria Provinciale di Milano, sentenza n°149/46/2009).

Tassazione dei canoni non riscossi

 

Riferimenti:

Art. 26 del D.P.R. n°917/1986;

Corte Costituzionale, sentenza  n°362/2000;

Comm. Trib. Reg. Milano, sentenza n° 95/46/2013;

Comm. Trib. Prov. di Milano, sentenza n° 147/35/2013.

Accade spesso che difronte a una persistente morosità del conduttore, il locatore ometta di indicare i canoni non percepiti, vedendosi poi notificare dall’Agenzia delle Entrate un avviso di maggiore imposta ex art. 41 bis D.P.R. n°600/1973 per reddito da fabbricati non dichiarato.

Ebbene, la materia è disciplinata dall’art. 26 del D.P.R. n°917/1986 che recita “I redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore.

Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare”.

In sostanza, dal tenore della norma in esame, possiamo affermare che il proprietario di un immobile è tenuto a dichiarare il reddito derivante dalla concessione in locazione dell’immobile anche qualora il conduttore risultasse moroso. Difatti, in caso di persistente morosità del conduttore, il locatore potrà avviare la procedura di sfratto per morosità, dichiarando ugualmente i redditi da locazione, con la possibilità, una volta ottenuto il provvedimento di convalida di chiedere il credito d’imposta per i canoni che è stato costretto a portare in dichiarazione.

La ratio legislativa è quella di evitare una condotta elusiva del proprietario di un immobile che in accordo con il conduttore potrebbe evitare di dichiarare il reddito da locazione, simulando una morosità, inviando fittizie diffide ad adempiere all’inquilino.

Sebbene, la norma appaia in prime facie senza ombre, la Corte Costituzionale con la sentenza n°362/2000 è intervenuta in materia affermando che “il riferimento al canone di locazione (anziché alla rendita catastale) potrà operare nel tempo solo fin quando risulterà in vita un contratto di locazione e quindi sarà dovuto un canone in senso tecnico. Quando, invece, la  locazione (rapporto contrattuale) sia cessata per scadenza del termine (art. 1596 c.c.) ed il locatore pretenda la restituzione essendo in mora il locatario per il relativo obbligo, ovvero quando si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto, ivi comprese quelle di inadempimento in presenza di clausola risolutiva espressa e di dichiarazione di avvalersi della clausola (art.1456 c.c.) o di risoluzione a seguito di diffida ad adempiere, tale riferimento al reddito locativo non sarà più praticabile” .

La soluzione a cui è giunta la Corte Costituzionale è la seguente: per determinare le modalità di tassazione dell’immobile locato, occorrerà verificare se il rapporto contrattuale è ancora in essere oppure risulta concluso. In sostanza, il locatore potrà legittimamente evitare di indicare nella dichiarazione dei redditi i canoni di locazione non riscossi ma solo se vi sia stata una risoluzione del rapporto contrattuale (perché il locatore ha dichiarato di volersi avvalere di una clausola risolutiva espressa o perché vi è stata una risoluzione consensuale con il conduttore).  Pertanto se il rapporto dovesse risultare ancora in essere il proprietario è obbligato a dichiarare il reddito fondiario così come previsto nel contratto di locazione.

Qualora, invece, vi sia stata una risoluzione anticipata del rapporto il locatore  deve sottoporre a registrazione detta risoluzione versando la relativa imposta.

Cosa accade se il contratto viene risolto anticipatamente dal locatore o  consensualmente da entrambo le parti, ma il proprietario provvede a registrare la risoluzione contrattuale con anni di ritardo?

La Commissione Tributaria Regionale di Milano con la sentenza n° 95/46/2013, sostiene che “nonostante sia stata omessa la rituale comunicazione all’Ufficio, il contribuente ha prodotto la lettera proveniente dal conduttore con la richiesta della anticipata risoluzione in data 13.05.2004 per poi, sia pure in ritardo,  versare l’imposta fissa prevista per la risoluzione anticipata unitamente agli interessi per il tardivo versamento dell’imposta, per cui risulta aver adempito a quanto d’obbligo…omissis….il Collegio ritiene sia intervenuta una bonaria definizione del rapporto locatizio omesso tuttavia l’assolvimento in termini del pagamento dell’imposta fissa prevista in tale ipotesi che comunque viene effettuato successivamente, pertanto il solo ritardo per il perfezionamento di detta formalità non è ritenuta dal Collegio  sufficiente ed idonea ad addebitare al contribuente una pretesa omessa dichiarazione di parte di un canone di locazione nella sostanza inesistente”.

Detta ultima pronuncia, in verità e per completezza d’informazione, si pone in netto contrasto a quanto invece statuito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano con la sentenza n° 147/35/2013, la quale afferma che “in caso di risoluzione anticipata di un contratto di locazione il locatore – come ricorda anche l’ufficio nelle sue controdeduzioni – ai sensi del combinato disposto degli articoli 17 (Cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite dei contratti di locazione e di affitto di beni immobili), 43 ( Base imponibile) e 5 Tariffa Parte Prima (Locazione e affitti di beni immobili) D.P.R. n. 131 del 1986, deve sottoporre a registrazione la risoluzione anticipata e versarne l’imposta in termine fisso presentando, entro 20 giorni dal pagamento, il relativo attestato all’Agenzia delle Entrate. Ne consegue che, risultando a quest’ultima “dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria” (cfr. art 41 bis D.P.R. n. 600 del 1973) che la contribuente aveva omesso di eseguire gli adempimenti previsti dalla legge (volontariamente o no, nella fattispecie specifica, è considerazione ininfluente), correttamente l’ufficio ha emesso l’avviso di accertamento ex art. 41 bis.”

 Avv. Alessandro Sgrò

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Studio legale Sgrò
Finalista della 50° edizione
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Cosa dicono di noi alcuni nostri clienti
  • Simona

    dipendente studio notarile


    Non sapevo proprio come fare: avevo una montagna di cartelle esattoriali per multe con il motorino. Per fortuna abbiamo verificato ogni cartella e ci siamo accorti che c’erano molti errori…abbiamo ridotto di tanto il debito e ora sono molto più tranquilla.

    Grazie avvocato!

  • Leonardo

    proprietario immobiliare

    Ero proprietario di un immobile con mio fratello che però aveva la sua quota ipotecata da Equitalia. Grazie allo Studio Legale Sgrò siamo riusciti a venderlo in una settimana.

    Che dire? Ottimo lavoro.

  • Sara

    imprenditrice

    Che strazio…l’Agenzia delle Entrate mi aveva alzato la classe e la rendita catastale del mio locale. Avrei dovuto pagare un sacco di tasse in più. Lo Studio Legale Sgrò con la collaborazione di uno Studio Tecnico hanno vinto la causa.

    Ora la rendita è quella di prima. Grazieeee.

  • Alessia

    imprenditrice

    Facendo un controllo presso Equitalia mi sono trovata dei debiti con il Fisco di cui non ne sapevo nulla.

    Grazie allo Studio Sgrò ho scoperto che molte somme non erano dovute!

  • Pietro

    professionista

    Ho rottamato molte cartelle ma dopo un esame più approfondito mi sono accorto che alcune erano già prescritte e altre notificate in modo non corretto.

    Ho fatto ricorso con lo studio Sgrò

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