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STUDI DI SETTORE: NULLITA’ DELL’AVVISO DI ACCERTAMENTO

studi settore

Riferimenti:
Corte di Cassazione, sentenza n°6971/2015.

Mi capita spesso di costatare nell’ambito della mia attività professionale la totale noncuranza da parte dell’Agenzia delle Entrate dei principi che regolano i rapporti tra contribuente e Fisco come, ad esempio, i principi di collaborazione e buona fede espressi agli artt. 10 e 12 della L. n°212/2000, oppure del principio di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost.

E’ frequente, poi, nel caso degli studi di settore, che il Fisco si “dimentichi” di esporre nell’avviso di accertamento notificato al contribuente le ragioni per le quali ha disatteso le argomentazioni e/o giustificazioni offerte da quest’ultimo nel corso del contraddittorio endoprocedimentale.

Ricordiamo che è fatto obbligo al Fisco, a pena di nullità dell’intero procedimento impositivo, prima di emettere un avviso di accertamento fondato sugli studi di settore, invitare il contribuente a spiegare le eventuali ragioni delle incongruenze dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli accertati dall’Agenzia. Inoltre, qualora il contribuente ottemperando all’invito notificatogli, trasmette le proprie deduzioni o idonea documentazione volta a spiegare la propria reale situazione, l’Ufficio è tenuto a indicare nell’avviso di accertamento le ragioni per le quali ha inteso rigettare le giustificazioni fornite dal contribuente.
Si tratta di un tipico caso in cui l’obbligo di motivazione (c.d. in replica) dell’atto sorge per effetto di un’attività del contribuente.

Interessante, sul punto, è la recentissima sentenza n°6971/2015 della Corte di Cassazione che ha affermato il principio secondo cui “in sede di contraddittorio preventivo il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, per altro verso, che la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento dai parametri, altrimenti vanificandosi del tutto le finalità del contraddittorio, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con l’indicazione delle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. Per il che, l’Ufficio può motivare l’accertamento esclusivamente in base dell’applicazione degli “standards”, nella sola ipotesi in cui il contribuente non aderisca all’invito al contraddittorio, rimanendo del tutto inerte. In tal caso, infatti, l’Amministrazione – in assenza di elementi di segno contrario offerti dal soggetto sottoposto ad accertamento – non potrà che dare conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, mentre la mancata risposta da parte di quest’ultimo dovrà essere valutata dal giudice, nel quadro probatorio emergente dagli atti del giudizio” (Cass.S.U. 26635/09; Cass. 11633/13).

In sostanza, gli Ermellini riferiscono che la mancanza dell’elemento cardine motivazionale, e cioè l’argomentazione ad contrariis sugli elementi probatori offerti dal contribuente nel corso del contradditorio, si configura come un insanabile vizio di motivazione che, inficiando tutto l’atto accertativo, ne determina la nullità.
L’Ufficio non può trasformare un adempimento sostanziale, qual è il contraddittorio, in una formalità senza senso!

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AVVISO DI RETTIFICA CLASSE E RENDITA CATASTALE CON PROCEDURA DOCFA

Riferimenti:

Corte di Cassazione, sentenza n°5580/2015;

Commissione Tributaria Regionale di Perugia, sentenza n°166/3/2015;

Commissione Tributaria Regionale di Napoli, sentenza n°68/7/2015;

In un mio recente articolo pubblicato su questo sito ho dato risalto alle problematiche inerenti al provvedimento di rettifica/rigetto della classe, della categoria e della rendita di immobili proposte con la c.d. procedura DOCFA.

In particolare, è stata analizzata la pronuncia n°3394/2014 della Corte di Cassazione che ha dichiarato l’illegittimità di un provvedimento di rettifica della classe e della rendita di un’unità immobiliare, emesso e notificato dall’Agenzia delle Entrate Ufficio del Territorio sull’assunto che quest’ultima “non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal contribuente con la Dofca viene disattesa”.

Ebbene, suddetto principio (l’Ufficio non può disattendere il classamento basato sulla procedura DOCFA senza idonea motivazione) è stato ulteriormente ripreso e argomentato dai giudici di legittimità con la recentissima sentenza n°5580/2015.

In particolare, gli Ermellini affermano che “qualora l’attribuzione della rendita catastale avvenga a seguito della procedura disciplinata dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 1993, n. 75, e dal D.M. 19 aprile 1994, n. 701 (cosiddetta procedura DOCFA), l’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento è soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, la motivazione dovrà essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso”.

Interessante in materia sono, inoltre, alcune attualissime pronunce delle Commissioni Tributarie di merito che ritengo utile richiamare.

Commissione Tributaria Regionale di Perugia n°166/3/2015

“L’Ufficio non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal contribuente con la procedura Docfa viene disattesa. Principio questo chiaramente enunciato nell’Ordinanza n. 3394 del 13.02.2014 della Cassazione. Del resto l’atto di revisione non è atto processuale bensì atto amministrativo e la sua motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso”.

Commissione Tributaria Regionale di Napoli n°68/7/2015

“La variazione di classamento operata di Ufficio non appare adeguatamente motivata, giacchè l’avviso di accertamento è privo di alcun richiamo specifico idoneo a dimostrare la diversa valutazione, dato anche il difetto di previa ispezione dell’immobile.

Siffatta carenza di motivazione determina, per tale profilo, l’illegittimità dell’avviso di accertamento, alla stregua dell’insegnamento della Suprema Corte nella sentenza n. 5717 del 2000 e nella sentenza n. 4059 del 2000.

Legittima, sotto il profilo procedurale, è l’assenza della previa ispezione, trattandosi di originaria procedura DOCFA.

Tuttavia, l’accertamento manca dell’indicazione del criterio di stima seguito, dei coefficienti di degrado, dei prezzi di mercato, della provenienza, delle procedure del calcolo di superfici e volumi.

Nella specie, l’atto non risulta motivato ed è privo di qualsivoglia riferimento ai criteri di valutazione. Invero, si tratta di una scheda sintetica contenente le sole indicazioni catastali per l’identificazione dell’immobile in cui non v’è il benché minimo riferimento concreto alle caratteristiche, ai pregi, all’ubicazione, al valore degli immobili vicini, ad una qualsivoglia attività ispettiva o comparativa.

In mancanza di qualsivoglia supporto tecnico o motivazionale della diversa valutazione operata. Osserva il Collegio, innanzitutto, che legittimi e comunque non contestati, nemmeno incidenter tantum, si appalesano i regolamenti e gli atti amministrativi generali, costituenti il presupposto para-normativo del Classamento, disapplicabili dal giudice tributario investito della singola res controversa, ma solo se e solo in quanto si palesassero illegittimi (artt. 4 e 5 L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E; cfr. Cass. trib. 10.06.2008, nr. 15285).

Nella concreta fattispecie, il classamento proposto dal Contribuente è stato disatteso dall’Agenzia del Territorio con variazione in pejus soprattutto della rendita”.

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NULLITA’ IPOTECA ISCRITTA DA EQUITALIA

 

 

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Riferimenti:

art. 77 del D.P.R. n°602/1973;

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sent. n°19667/2014;

Corte di Cassazione, sent. n°9270/2015.

E’ nulla l’iscrizione d’ipoteca da parte di Equitalia in mancanza della preventiva comunicazione al contribuente. Questo è il principio espresso recentemente dalla Corte di Cassazione a Sezione Unite con la sentenza n° 19667/2014.

Ancor più recente, in materia, è la sentenza n° 9270/2015 con cui la Corte di Cassazione ha affermato il principio di cui sopra tracciato dalle Sezioni Unite, estendendolo anche alle iscrizioni ipotecarie effettuate prima dell’entrata in vigore dell’obbligo di comunicazione preventiva di cui all’art. 77, comma 2 bis, del D.P.R. n°702/1973, così come introdotto dal D.L. n°70 del 2011.

In sostanza, gli Ermellini sostengono, giustamente, che deve essere applicato “ il principio affermato dalle sezioni unite (Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667), secondo cui anche nel regime antecedente l’entrata in vigore dell’obbligo di comunicazione preventiva dell’iscrizione di ipoteca D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 77, comma 2 bis, introdotto con D.L. n. 70 del 2011, l’amministrazione, prima di iscrivere ipoteca, ai sensi dell’art. 77, deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni – perchè egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto”.

Da quanto sopra ne consegue che l’Equitalia è tenuta a comunicare preventivamente al contribuente l’intenzione di procedere in via cautelare sui beni immobili di quest’ultimo, concedendogli un termine a difesa (trenta giorni) per decidere se versare le somme che si presumono inevase oppure presentare delle memorie difensive. Pertanto, l’iscrizione d’ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente dev’essere dichiarata nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale”.

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SOVRAINDEBITAMENTO

La procedura per liberarsi dai debiti

 

Le dimensioni assunte dalla crisi economica hanno inevitabilmente esasperato le situazioni di sovraindebitamento: molte famiglie si sono indebitate per far fronte alle esigenze quotidiane e le imprese si vedono sempre più tassate con la difficoltà ad assolvere i loro debiti.

Una soluzione interessante ci è offerta dalla legge n°3/2012 che prevede la possibilità per il debitore (sia esso persona giuridica o persona fisica) di ottenere che i creditori siano soddisfatti da quanto può realmente pagare: l’ammontare del debito che non può essere pagato alla fine della procedura verrà cancellato con piena riabilitazione del debitore.

La novità, senza precedenti nel nostro Paese, è che anche il consumatore persona fisica che ha contratto debiti esclusivamente per finalità diverse dall’esercizio di un’attività imprenditoriale o professionale, eventualmente svolta, può accedere alla procedura di  cui alla legge n°3/2012. In quest’ultimo caso rilevano situazioni che hanno evidenti ricadute sugli assetti familiari quali eventuali perdite di lavoro o situazioni personali di disagio o malattie.

Possono, dunque accedere alla procedura:

– il consumatore, persona fisica;

– piccola impresa non fallibile (ricavo lordo annuo non superiore a € 200.000,00);

– imprenditori agricoli;

– enti non profit;

start up innovativa (azienda che opera nella produzione e distribuzione di prodotti o servizi ad alto valore tecnologico, e che rispetta i parametri definiti dal D.L. n°179/2012).

Se hai una complessiva situazione debitoria alla quale non riesci più a fare fronte, lo studio legale e tributario Sgrò procederà ad analizzare:

– l’esposizione debitoria;

– eventuali iscrizioni a ruolo da parte di Equitalia – fermi amministrativi e ipoteche;

– valutare la migliore strategia da applicare al caso concreto.

Per info sulla procedura: tel. 06.68891896  oppure invia una mail a info@studiolegalesgro.net

 

 

 

 

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AGGIO DI RISCOSSIONE: IPOTESI D’ILLEGITTIMITA’

cash

Riferimenti:

– Art.17, comma 1, del D.lgs. n°112/1999

– Commissione Tributaria Provinciale di Milano, sentenza n°4682/24/2015.

 

Occorre inizialmente precisare, come riferito dagli stessi Giudici milanesi, che l’aggio di riscossione altro non è che una misura finanziaria che va ad aggiungersi al totale delle somme che il contribuente è tenuto a pagare, in caso di somme dovute all’Erario, al fine di compensare il rischio di insolvenza da parte del contribuente stesso.

Ai sensi dell’articolo 17, comma 1, del D.lgs. n°112/1999, l’attività dei concessionari, ossia gli agenti della riscossione, dev’essere remunerata con un aggio. Esso ha natura tributaria, poiché per il contribuente che è tenuto a pagarlo, integra il tributo iscritto a ruolo.

Va subito chiarito che il rischio d’insolvenza da parte del contribuente si può ravvisare solo se vi siano delle condotte poste in essere da quest’ultimo prima dell’iscrizione a ruolo, come nel caso di un avviso di accertamento emesso dalla P.A. e non opposto che ha costretto l’Amministrazione finanziaria a rimettere la questione ad Equitalia per la riscossione di quanto inevaso ma non, certamente, nei casi di iscrizione nel ruolo provvisorio in pendenza di un ricorso presentato dal contribuente/ricorrente.

Difatti, secondo la recentissima sentenza n°4682/24/2015 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano “per molti tributi, quali quelli versati a titolo provvisorio in pendenza di ricorso, tale rischio non è palesemente ravvisabile, poiché l’iscrizione nei ruoli esattoriali non rappresenta, come nel caso precedente, una misura eccezionale e coercitiva volta all’assunzione della somma dovuta, bensì una mera prassi di riscossione ordinaria. In questi casi, non palesandosi il “rischio”, non si giustifica il versamento dell’aggio, che, al contrario, si evidenzia come una ingiustificata sanzione accessoria”.

In sostanza l’aggio non è dovuto per la riscossione parziale posta in essere da Equitalia in pendenza di un ricorso innanzi all’autorità giurisdizionale.

Avv. Alessandro Sgrò

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AVVISI ICI CASE PER FERIE

 

 

 

Riferimenti:

– art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 504 del 1992;

Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenze nn°6257/7/2015, 6258/7/2015 e 6259/7/2015);

Commissione Tributaria Regionale di Roma, sentenza n°273/6/2013.

 

In un recente articolo ho analizzato alcune recenti pronunce emesse dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma in merito al diritto all’esenzione ICI di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 504 del 1992,  di un ente ecclesiastico che adibisce un proprio immobile in parte a sede della comunità religiosa e in parte a casa per ferie con ospitalità rivolta a particolari categorie di soggetti.

La Commissione Tributaria d’Appello di Roma (sentenze nn° 1267/4/2014 e 287/22/2010), ha dichiarato l’illegittimità di alcuni avvisi di accertamento ICI notificati a un ente ecclesiastico poiché quest’ultimo aveva dimostrato in sede giudiziaria che la casa per ferie, gestita dall’ente nell’immobile oggetto di accertamento, non era rivolta a un pubblico indeterminato ma solo ed esclusivamente per l’accoglienza di studenti universitari lontani dalle proprie residenze e per la sola durata dell’attività didattica, con conseguente esclusione del periodo estivo. Secondo i giudici tributari, può legittimamente ritenersi che l’opera d’accoglienza, gestita al di fuori dei normali canali commerciali, risponda precipuamente a finalità sociali e religiose.

Orbene, lo scenario così come tracciato dalla giurisprudenza di merito sopra richiamata, ha trovato ulteriore conferma in primo grado dalle recentissime tre pronunce emesse dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma (sentenze nn°6257/7/2015, 6258/7/2015 e 6259/7/2015) a favore di altrettanti enti ecclesiastici difesi dallo scrivente studio Sgrò e dall’avv. Greatti.

Con la sentenza n°6257/7/2015 la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, ha dichiarato l’illegittimità di ben due avvisi di accertamento ICI per gli anni d’imposta 2008 e 2009, emessi nei confronti di un ente ecclesiastico poiché quest’ultimo, tramite i propri difensori, ha dimostrato in giudizio la sussistenza del requisito oggettivo in capo alla Congregazione ricorrente. Difatti era stata fornita adeguata prova che nell’immobile accertato, ove veniva esercitata attività di casa per ferie, l’ente ecclesiastico accoglieva delle studentesse fuori sede che versavano delle rette molto al di sotto dalle tariffe applicate da altre strutture ricettive presenti sul mercato di Roma.

Dello stesso tenore è la sentenza n° 6258/7/2015, emessa dalla CTP di Roma a favore di altro Ente Ecclesiastico, anch’esso difeso dallo studio legale Sgrò e dal collega Greatti, ove viene riconosciuto il diritto all’esenzione ICI nell’immobile in cui si esercita attività di casa per Ferie ospitante lavoratrici fuori sede sull’assunto che “l’offerta abitativa  non fosse rivolta ad una platea indiscriminata di destinatarie e che il pensionato fosse gestito dal ricorrente con modalità non esclusivamente commerciali, sia per l’esiguo compenso chiesto, sia per i criteri utilizzati per selezionare le potenziali ospiti”.

Infine, si segnala la sentenza n°6259/2015 con cui la CTP di Roma ha dichiarato l’illegittimità di ben tre avvisi di accertamento ICI per gli anni d’imposta 2007/2008/2009 poiché lo studio legale Sgrò e il collega, sono riusciti a dimostrare in sede giudiziaria che l’ente ecclesiastico pur titolare di partita IVA e con un significativo volume d’affari, negli anni interessati dagli avvisi di accertamento impugnati, ha svolto attività ricettiva con modalità tali da escludere la completa equiparabilità alle ordinarie strutture turistiche ricettive presenti nella città di Roma.

Le tre pronunce favorevoli ottenute dallo Studio, a cui si aggiunge la sentenza n°273/6/2013, emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma, sono state il frutto di un accurato esame della vicenda, dal reperimento di copiosa documentazione a sostegno dell’illegittimità degli avvisi notificati e da un efficace strategia difensiva volta non solo a sostenere le ragioni degli enti rappresentati ma anche a contrastare le difese della Pubblica Amministrazione.

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MOTIVAZIONE DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO

equitalia


Riferimenti:

– art 7 della legge n°212/2000;

– Corte di Cassazione, sentenza n°8553/2016;

– Corte di Cassazione, sentenza n°20211/2013.

La cartella di pagamento, come qualunque atto impositivo, dev’essere motivata.

Il principio dell’obbligatorietà della motivazione degli atti tributari non prevede alcuna deroga: l’art 7 della legge n°212/2000 prevede che tutti i provvedimenti aventi ad oggetto una pretesa fiscale che incide nella sfera giuridica del destinatario devono permettere a quest’ultimo di comprendere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa impositiva.

Il contenuto della motivazione, giova precisarlo, è funzionale alla tipologia dell’atto notificato. In altri termini un conto è una cartella di pagamento emessa sulla base di un avviso di pagamento precedentemente motivato e non opposto, un conto, viceversa, è la cartella esattoriale non preceduta da un motivato avviso di accertamento.

Nel primo caso, secondo costante giurisprudenza, l’Equitalia è tenuta a indicare solo il tipo di tributo, il periodo d’imposta, l’imponibile, la violazione commessa, l’aliquota applicata ecc.. Nel secondo caso invece la motivazione deve essere congrua, sufficiente e intellegibile, come se si trattasse dell’atto impositivo (Cass. SS.UU sent. n°26330/2009).

Interessante in materia è la recentissima sentenza n°8553/2016, emessa dalla Corte di Cassazione la quale ha ribadito il seguente principio di diritto: “… omissis… ove la cartella non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente, ma costituisca il primo ed unico atto con il quale l’ente impositore esercita la pretesa tributaria, essa deve essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo; e contenere, quindi, tutti gli elementi indispensabili per porre il contribuente in condizione di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell’imposizione; qualora invece la cartella esattoriale sia stata preceduta dalla notifica di altro atto propriamente impositivo, essa non può venire annullata per vizi di motivazione quand’anche non contenga l’indicazione del contenuto essenziale dell’atto presupposto; sempre che quest’ultimo risulti conosciuto dal contribuente che l’abbia autonomamente impugnato (Cass. 21177/14)”.

Si ricorda, infine, che la motivazione dev’essere chiara e non proporre ipotesi motivazionali alternative ovvero antitetiche. La Corte di Cassazione con sentenza n°20211/2013 ha dichiarato l’illegittimità della cartella esattoriale per carenza di motivazione quando si contesta al contribuente “l’omesso o carente versamento” di un tributo!

Avv. Alessandro Sgrò

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CIRCOLARE 11/E DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Si allega la circolare n°11/E del 21 maggio 2014 emessa dall’Agenzia delle Entrate in materia di oneri deducibili e detraibili, tra i quali le spese sanitarie, gli interessi passivi, le spese per gli interventi di recupero del patrimonio abitativo e per la riqualificazione energetica degli edifici, il bonus mobili, le altre detrazioni, nonché su altri quesiti riguardanti il rapporto tra IMU IRPEF, i redditi di lavoro dipendente e fondiari.

 

CIRCOLARE 11/E

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INFORMAZIONI CERVED: IPOTESI D’ILLEGITTIMITA’ DELL’ANNOTAZIONE DEL FALLIMENTO

garante privacy

Riferimenti:

– art.11 del D.Lgs. n°196/2003 (Codice sulla Privacy)

 

Accade spesso che a seguito di un fallimento di una società di capitali, il socio della stessa e/o l’amministratore unico, soltanto per aver ricoperto delle cariche all’interno della società fallita, si vedano rifiutare dei finanziamenti da parte delle banche o altre società finanziarie perché dal “Dossier personale”, estratto dal sistema Cerved, risulta il fallimento della società in cui rivestivano in passato una carica sociale.

E’ evidente che l’associazione dell’informazione a un evento pregiudizievole che non li riguarda direttamente poiché riferibile solo ed esclusivamente alla società fallita, arreca un enorme pregiudizio alla reputazione della persona fisica, giacché il segnalato accostamento è suscettibile di far travisare caratteri e qualità professionali e imprenditoriali dell’interessato, pregiudicandone l’affidabilità commerciale, in ragione di fatti per i quali non risulta provata l’ascrivibilità allo stesso.

La questione dev’essere trattata al cospetto dell’art.11, comma 1, lett. a) e d) del Codice sulla Privacy, che richiede non solo che i dati personali debbano essere trattati in modo lecito e corretto ma anche in modo completo e pertinente e non devono in nessun caso eccedere rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati.

Ora, la Cerved Group S.p.A. (di seguito, “Cerved”), com’è noto, gestisce delle banche dati costituite presso di sé estraendo informazioni da altri archivi (formati da soggetti pubblici e privati) al fine di fornire alla propria clientela (composta per lo più da professionisti e operatori economici, quali banche, finanziarie, imprese e agenzie d’informazioni) servizi aventi contenuto informativo nell’ambito della c.d. business information.

Il novero dei soggetti censiti dalla società è, dunque assai ampio: si tratta di società, imprenditori individuali o persone fisiche, rispetto alle quali vengono fornite informazioni relative a c.d. “cariche/qualifiche gestionali”, partecipazioni societarie, protesti, pregiudizievoli di conservatoria, dai quali si può desumere la loro “affidabilità commerciale” alla luce degli eventi pubblici rilevanti censiti.

I dati, però, contenuti nei dossier che riguardano un determinato soggetto giuridico devono riferirsi direttamente a questi.

Nel perseguimento della propria finalità informativa realizzata rispetto alle persone fisiche (tramite il c.d. “dossier persona”), come più volte ribadito dal Garante della Privacy, è da censurare la condotta del Cerved che nella rappresentazione dei dati personali contenuti nei dossier associa alle informazioni personali relative ai soggetti censiti anche eventi che si riferiscono a terzi presso cui tali soggetti hanno operato o rivestito cariche (ad esempio, nel “dossier persona”, vengono associate informazioni relative a procedure concorsuali delle c.d. “imprese connesse”).

In sostanza il Garante della Privacy, ha ritenuto illegittima l’indicazione nel “dossier persona” del fallimento di società nell’ambito dei prodotti informativi relativi a persone fisiche, poiché non risulta pertinente rispetto alla finalità di fornire informazioni commerciali. Trattasi, a parere del Garante, di un evento (pregiudizievole) accaduto in relazione a terzi (e, in particolare, alla società in cui le persone fisiche avevano operato), rispetto al cui verificarsi l’ordinamento prevede una responsabilità personale in capo ai soggetti che rivestono le qualifiche dagli stessi ricoperte solo in casi residuali e accertabili giudizialmente (cfr. artt. 2462 e 2476 cod. civ.; art. 146 r.d. 16 marzo 1942, n. 267).

La menzionata associazione effettuata da Cerved è suscettibile di mettere in cattiva luce il soggetto cui l’informazione viene a riferirsi: in questi casi l’interessato potrebbe vedere incrinato il proprio diritto meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato nella vita di relazione, con la sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, generale e particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva.

Tenuto conto dei molteplici provvedimenti del Garante della Privacy in materia*, possiamo certamente concludere che l’informazione relativa a un evento che ha interessato una società –informazione comunque sempre reperibile, anche attraverso il “dossier impresa” riferito ad essa– non può essere associata direttamente e immediatamente a soggetti che abbiano operato o rivestito cariche in essa, trattandosi, per l’appunto, di entità diverse.

Avv. Alessandro Sgrò

* Per maggiori info sulla procedura di cancellazione al Cerved o per visionare i provvedimenti in materia da parte del Garante della Privacy invia una mail al seguente indirizzo: info@studiolegalesgro.net

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ATTI FIRMATI DAI C.D. FALSI DIRIGENTI

 

Riferimenti:

Corte Costituzionale, sentenza n°37/2015.

Ben nota a tutti è la sentenza n°37/2015 con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che ha consentito all’Agenzia delle Entrate di nominare figure dirigenziali senza un regolare concorso pubblico.

Tralasciando, per ora, la vicenda processuale che è culminata con la declaratoria d’illegittimità costituzionale di cui sopra, ciò che appare interessante esaminare sono le conseguenze che detta pronuncia può avere nei confronti dei contribuenti che si sono visti notificare, per lungo tempo, atti sottoscritti da soggetti che hanno ricoperto una posizione dirigenziale con procedura ab origine viziata.

La voce che maggiormente si è diffusa all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale è di ritenere tutti gli atti firmati dai c.d. falsi dirigenti come giuridicamente inesistenti, con la conseguente possibilità di impugnare detti atti (ed eventuali iscrizioni a ruolo) anche se spirati i termini per proporre ricorso innanzi alle autorità giudiziarie. Difatti, tecnicamente, colui che vuol far valere in giudizio l’inesistenza di un atto impositivo non è vincolato da termini e il giudice può rilevare detto vizio anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

Sulla scorta di tal entusiastica e, me lo permettete, ottimistica prospettiva, alcuni contribuenti hanno preso contatto con lo studio per valutare l’opportunità di ricorrere avverso avvisi di accertamento o cartelle di pagamento mai oggetto di opposizione essendo abbondantemente trascorsi i termini per proporre ricorso.

A parere di chi scrive, il diffuso ottimismo non appare condivisibile, almeno nei termini dell’inesistenza giuridica degli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate.

Difatti, l’atto tributario è inesistente solo quando non è conforme al modello legale e quando tale difformità è talmente rilevante da impedire che all’atto possa riconoscersi natura provvedimentale. Nel caso, invece, di atti sottoscritti da chi non aveva il relativo potere sarebbe più corretto ragionare in termini di nullità. Occorre non dimenticare che la categoria della nullità in re tributaria è ben diversa da quella disciplinata dal diritto amministrativo e che il diritto tributario è un sottosistema del diritto amministrativo, pertanto le disposizioni delle leggi fiscali (che disciplinano la medesima materia), avendo natura speciale, prevalgono sulle norme di carattere generale della L. n°241 del 1990.

In termini concreti, per far valere la nullità di un atto impositivo emesso dall’Agenzia delle Entrate o dall’Agente della riscossione, il contribuente deve proporre ricorso entro il termine previsto dalla legge e non in qualunque momento, come potrebbe accadere nel caso in cui si eccepisse l’inesistenza dell’atto opposto. Pertanto, l’eccezione circa la nomina del dirigente che ha sottoscritto l’atto notificato può essere fatta valere solo per i provvedimenti impositivi i cui termini per la proposizione del ricorso non siano ancora spirati.

Chiaro, che in quest’ultimo caso, l’eccezione del contribuente è totalmente “al buio” poiché quest’ultimo difficilmente è in grado a priori di sapere se chi ha sottoscritto l’atto era effettivamente un dirigente nominato senza un regolare concorso. Ad ogni buon conto, innanzi a un’eccezione del genere è sempre onere del Fisco provare in giudizio i requisiti di validità della nomina del dirigente. Se ciò avvenisse, è bene precisare che il contribuente potrebbe essere condannato al pagamento delle spese del giudizio; inoltre la controparte potrebbe chiedere al Giudice, finanche, la liquidazione dei danni per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.. A tal proposito, si precisa che il carattere temerario della lite – che costituisce presupposto necessario per la condanna al risarcimento dei danni – va ravvisato nella consapevolezza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di tale consapevolezza.

E’, dunque, consigliabile, formulare nel ricorso ulteriori e plausibili eccezioni riferite all’atto da impugnare e non unicamente la questione decisa dalla Corte Costituzionale.

Si tenga conto, poi, che l’Amministrazione Fiscale, anche nelle more del giudizio e purché ancora nei termini, potrà sempre emanare un nuovo provvedimento sottoscritto regolarmente dal dirigente nominato con concorso o, comunque, dal capo ufficio ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n°600/1973 (si parla in questi casi della c.d. autotutela sostitutiva).

Stante quanto sopra, non è certamente mia intenzione scoraggiare i contribuenti nell’intraprendere delle azioni legali nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, ma solo di fornire, almeno spero, una più equilibrata valutazione dell’intera vicenda; fermo restando che sul tema è comunque davvero complesso trarre delle univoche conclusioni.

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